C’era una volta l’America nei mille volti di Pittsburgh Scrissi d'arte

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Pittsburgh se la sono litigata un po’ tutti. Giubbe rosse e francesi quando era un ammasso di tronchi, Fort Pitt, sulle sponde dell’Ohio. Pellerossa e trapper. Federali e confederati, che non distante dalla città della Pennsylvania, a Gettysburg, si scannarono nella battaglia più sanguinosa della guerra civile nordamericana, un macello che mise fine alla velleità sudista di conquistare il nordest unionista. Pittsburgh conquistò anche William Eugene Smith (1918-78), grossomodo un secolo dopo, alla metà degli anni ‘50. La città aveva attraversato quel secolo da protagonista del boom industriale ed economico, era il paradigma del sogno americano con le sue ombre e le sue luci. Affascinato dai suoi fumi e lumi, dall’umanità dolente e gaudente che si trascinava in quello che all’epoca poteva dirsi l’epicentro della modernità, Wes si dette un compito all’apparenza impossibile. Scandagliare l’animo della città come fosse un corpo unico, la sua pelle sotto quella degli abitanti. Come fosse un medico di campagna o una guardia civil, una delle figure immortalate nei reportage che l’avevano reso una celebrità del giornalismo d’inchiesta, dalle pagine di Life.

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Una passeggiata nel giardino del paradiso

Su quella rivista Wes raccontò gli orrori della Seconda guerra mondiale che divenne iconica anche grazie ai suoi scatti, finché nel maggio 45, a Okinawa, quando in Europa la guerra era già finita, una granata giapponese gli fece quasi saltare la faccia. Riprese in mano la macchina fotografica un bel po’ di tempo dopo, non senza essersi chiesto, nel frattempo, se ancora sarebbe stato capace di fotografare o ne valesse la pena. La risposta è in quello scatto che resta a tutt’oggi un’icona della fotografia d’ogni tempo, una delle immagini più suggestive ed evocative di sempre. La passeggiata nel giardino del paradiso che scattò a due dei quattro figli, convalescente, nel ‘46. Dove i due bambini che sbucano all’aperto da una forra, investiti da un sprazzo luminoso, simboleggiano come meglio non si potrebbe non solo un momento d’intimità famigliare, ma l’umanità che torna alla luce, fiduciosa e curiosa, dopo aver attraversato le barbarie e l’oscurità della guerra.

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Tenendo per mano tragedia e disperazione

Di tanta speranza restavano briciole a Wes quando, meno d’un decennio dopo, attraversava le vie di Pittsburgh per cogliere l’anima della città attraverso i mille volti delle cose e della gente. Un’ossessione durata anni, più che il lavoro d’una vita. Come se la passava lo rende al meglio una lettera che Wes scrisse alla “carissima madre” durante quel tristo girovagare alla cerca dell’impossibile, solo e senza un soldo, perso dietro un sogno che gli sfuggiva di continuo e un’ossessione che l’attanagliava sempre. “Forse stiamo camminando tenendoci per mano, io e la tragedia, e con la disperazione siamo in tre. Ma non allarmarti, sono in seria difficoltà, non devastazione, e ognuno avrà il denaro che gli spetta”. Rileggerla oggi sui muri del Mast, quella frase, fa un certo effetto.

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Smith al Mast nel centenario della nascita

Al viaggio a Pittsburgh d’uno dei più quotati maestri della fotografia statunitense la Manifattura delle arti, sperimentazione e tecnologia di Bologna dedica una retrospettiva, nel centenario della nascita. Una selezione di materiali messi a disposizione dalla fondazione Carnagie, coerentemente alla vocazione verso l’immagine industriale che la struttura nata per iniziativa dell’imprenditrice e mecenate Isabella Seragnoli si porta fin dalla nascita, nel 2013. Sembra d’entrare a Fort Knox tanto si è tenuti d’occhio nelle sale a Borgo Panigale che rappresentano un fiore all’occhiello per la città – per il paese – anche se questa si tiene ai margini. Si è in un mondo davvero altro, qui, etereo come le nuvole che si specchiano sulla lastra a semicerchio dell’ingresso o l’acqua che fluttua tra i sassi del vialetto. E beati quei bambini che, nell’asilo nido annesso al centro, possono godersi tanta alterità dal presente.

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Pittsburgh specchio d’un tempo andato

Wes seppe ritrarre al suo meglio la città che per oltre un secolo ha rappresentato un polo industriale, l’America profonda e il mondo in divenire, anche se per farlo non impiegò i due mesi richiesti dal committente ma anni, quel che restava della vita. E anche se i suoi scatti non sono magniloquenti e iconici come quelli puri e duri dei guerrieri della guerra o dei suoi orrori che lo consacrarono presso il grande pubblico, restano specchio d’un tempo andato, e più non è dato avere. Il volto del forgiatore, le ciminiere degli altoforni sullo sfondo delle guglie di Saint Michels, ragazzini bianchi e neri che giocano assieme per strada – una rarità, nell’America degli anni Cinquanta – rivelano uno sguardo indagatore pregno dei tre comandamenti che Wes ha lasciato alla fotografia prima che il diabete se lo portasse via neanche sessantenne, dopo una sequela d’eccessi, successi e rovesci.

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I tre comandamenti di Wes

Che l’immagine sia soprattutto recita, racconto, messinscena necessaria a renderla emblematica, dunque vera. Nelle sue immagini c’è una notevole dose di finzione, nella consapevolezza precontemporanea che il finto non necessariamente è falso: lo è se si spaccia per vero. Che a nulla serve la profondità di campo se non c’è profondità di sentimento. Buon ultimo, e corollario dei precedenti, che non c’è contraddizione tra fotografia d’arte e di cronaca se si vuole andare al fondo delle cose, cercarne le verità nascoste. Ben detto Wes, ben fatto Mast. Gratis, fino al 16 settembre. Info www.mast.org.


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