La certezza delle macerie Le parole sono pietre

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Roma ha solo la certezza delle sue macerie, a due mesi dal Giubileo. Era dai tempi dei bersaglieri di La Marmora a Porta Pia che non si sentivano parole così dure sulla Città eterna da parte del Vaticano. Eh sì che la faccia tosta di Ignazio Marino è riuscita a far perdere le staffe (in diretta) pure a quel sant’uomo del santo padre, ma ecco l’ennesima riprova dell’accanimento mediatico contro di lui, per dirla come l’assessore alla legalità Sabella che promette di scolarsi una bottiglia di vodka prima di rimettersi al lavoro. In pectore per essere quel commissario che dai primi di novembre siederà sullo scranno del quasi ex sindaco.

Così il giorno dopo non sembra affatto tale, col sindaco che continua a fare il suo lavoro, tra un matrimonio e una riunione di giunta – eccetto i tre assessori aggregati all’ultimo rimpasto, di stretta osservanza renziana. Insomma, il giorno dopo le sue dimissioni – da formalizzare solo lunedì, poi può sempre ripensarci nella ventina di giorni necessari alla chiusa dei conti – Marino non smentisce se stesso, il marziano de Roma, il personaggio che tra ego smisurato e castroneria congenita avrebbe fatto la gioja di Flaiano. Tant’è che a tutt’oggi manco i fedelissimi saprebbero dire, in tutta onestà intellettuale, se ce fa o c’è, per dirla alla romana.

Sicché continua la Marineide sotto il plumbeo cielo capitolino, e l’accanimento mediatico contro il marziano. Gli è che Marino prende tempo, tratta la resa con chi l’ha infine affossato con uno spiedo da girarrosto, anche se sa che i giochi sono fatti e lui dal Campidoglio non scenderà ammantato di gloria. Ma l’importante è resistere, strappare qualche garanzia per il proprio futuro politico, sventolando agende zeppe di nomi e cognomi, di favori fatti e resi capaci di far tremare – a suo dire – quel che resta del disastrato panorama romano. Ma son cartacce, queste, che pesano meno dei faldoni della terza tranche di Mafia capitale che la procura minacciava di mettere in piazza e ora resterà al chiuso nei cassetti, e quel che resta della dirigenza pieddina potrà continuare a dormire sonni relativamente tranquilli.

Gli è che a Renzi è riuscito il colpo gobbo, alla toscana, affossandolo per qualche cenetta malpagata, dunque per fattacci personali, senza mettere in mezzo il partito di maggioranza che il sindaco ha sfornato e sostenuto, fino all’ultimo, nei 27 mesi del suo mandato. E che mestizia vedere, sui conti in tasca a Ignazio, quei 260 euro per sei persone, 40 a capoccia scontati, la sera di Santo Stefano del 2013. Ecché, appena sfangata la bancarotta del comune, il sindaco non aveva diritto di festeggiare in famiglia? Eppoi scagli la prima pietra chi non ha speso cotal cifra per una cena in trattoria, a Roma, altro che ristoranti di lusso. Ma il colpo di spiedo è andato a segno, ben manovrato da mani toscane, e Marino di suo ci ha rimesso l’assegno che avrebbe dovuto staccare senza tante storie, oltre al posto e alla faccia. Con l’aggravio che manco è nuovo a tali spesucce, visto che dalla dorata clinica di Pittsburgh sarebbe stato cacciato per lo stesso motivo. Ma la perseveranza di Marino non è diabolica in questo, piuttosto umana. Paga, il quasi ex sindaco, il mancato allineamento al premier, oltre alla dabbenaggine e alla distopia comunicativa.

Ma la vittoria per il Pd più che di Renzi può rivelarsi di Pirro. Affossato Marino, salvo colpi di scena nella guerra dei venti giorni che si annuncia, per i neodiccì le chance di vincere sono ridotte al lumicino, nonostante l’ostentato ottimismo dell’abatino Orfini. Senza passare per le primarie – come fare altrimenti, visto che il Pd romano tutto è fuorché nelle mani del premier? – i due nomi forti sono al momento quelli di due ministri, proprio perché tali restii a infilare la capoccia tra le macerie di Roma: Gentiloni (la prima scelta di Renzi, già battuto alle ultime primarie romane) e Franceschini. Gli altri son nomi da operetta, sparecchiatavoli buoni a far sì che nella campagna di primavera, a Roma come negli altri capoluoghi al voto, il pd rischi un flop storico, con buona pace del partito unico renziano. Sull’altra sponda già si canta vittoria. L’ennesima discesa in campo del Cavaliere, a far da paciere tra Meloni e Marchini, non impedirà a quest’ultimo una vittoria annunciata, da candidato unico del centrodestra di nuovo unito, sia pure sotto le spoglie d’un listone civico. Terzum non datur, visto dalle parti dei Pentastelluti, sulla carta i favoriti, tra veti incrociati tra De Vito e Di Battista e resistenze dei poteri forti e deboli non si andrà oltre al ballottaggio. Sicché, qualche spazio resta pure al buon Marino, tentato da una lista civica che faccia strame di quel che resta del Pd e se la batta alla meno peggio con Marchini. Un pertugio stretto stretto, buono giusto per infilarci uno spiedo. Genovese e non toscano, stavolta.


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