La montagna stregata Belle lettere

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La montagna, si sa, piace ma anche no. In genere si ama o si detesta, vie traverse non esistono. La montagna piace a Paolo Cognetti, come piacciono Le otto montagne uscite dalla sua penna. L’esordiente milanese, al suo primo romanzo con Einaudi dopo vari racconti, ha vinto l’ultimo Strega ribadendo su carta il suo amore per le vette, con un’opera prima che oltre ad aver conquistato giovani, giurati e addetti ai lavori della neonata sezione Off, s’è aggiudicata una valanga di traduzioni nel mondo e i diritti per un film. Un nuovo caso letterario, dunque, in grado di mettere d’accordo critica e lettori, restituendo dignità e rinascenza alla parola scritta? Vediamo.

La storia, in una classica tripartizione di neanche 200 pagine, è quella di un’amicizia e di un amore. L’amore per la montagna, appunto, e l’amicizia che ne deriva durante le vacanze estive in un paesino ai piedi del Monte Rosa tra due coetanei. Pietro, nato in città ma consegnato alla passione per le alte vette dal padre, con cui ha un rapporto silente e sofferto. E Bruno, che sui monti c’è nato e costretto per volontà paterna, ma per loro nutre la stessa passione. Amicizia e comune amore scompaiono e riaffiorano nei modi e negli anni come un corrente carsico, grazie a un lascito paterno, anche se uno va in Nepal a trovare una dimensione vitale meno solipsistica e l’altro resta dov’è, alle prese coi guai di un’esistenza vissuta nell’ordinario limite a cui si è costretti dalla vita ad alta quota. Da sopravvissuto in un mondo pressoché estinto, finché alla natura si paga lo scotto e la storia finisce, un po’ appesa e senz’altro da dire se non il disagio di una disfatta che chiude i conti e non dà resti, di passioni che rotolano via come una slavina, dopo essere state puntellate lungo tutta un’esistenza.

Sul filo rosso di sentimenti che sopravvivono al tempo si muove così una storia sul valore dell’amicizia e la figura del padre, il disagio dei figli e i guasti dell’oggi. “Un romanzo immediato e accessibile a chiunque”, si è detto delle montagne di Cognetti, look da montanaro doc, la notte dello Strega. Certo un vanto, soprattutto per un esordiente che sbanca il più importante premio letterario del Belpaese al secondo colpo – era già stato tra i finalisti per Minimum Fax – con la casa editrice torinese, al suo terzo premio negli ultimi cinque anni, ma non proprio quello che ti aspetti da un’opera letteraria. Il problema, forse, è questo.

L’affievolita capacità della letteratura di raccontare il proprio tempo, a vantaggio d’altre forme di narrazione. La sua incapacità nel costruire ancora grandi cattedrali, vivacchiando piuttosto di modeste chiesette. Di pianura o montagna, poco importa. Accessibilità e immediatezza, assai più che profondità, dunque. Ché troppo esiguo è lo spessore del ghiaccio che cela la vita che scorre, i fatti e le parole di cui si nutre la trama narrativa, perché essa non si spezzi prima che la storia possa svettare, farsi davvero testimonianza di un disagio esistenziale o specchio del tempo. Ma di questi tempi trovare una chiesola di montagna linda e pinta, pure se priva d’orpelli, anziché abbandonata, è molto e a molti piace.


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