L’avventura di un povero padre Le parole sono pietre

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Il 19 marzo scocca, inesorabile, la festa del papà. Ci piace omaggiare il lieto giorno contando una novella di verghiana impronta. L’avventura di un povero padre. Uno dei tanti che potrebbe essere chiunque, un qualunque nessuno a specchio dei tempi, ma è uno. E i malevoli tacciano del titolo, copiato a bellaposta dall’Avventura di un povero cristiano dedicata a Celestino V da Ignazio Silone, al secolo Secondino Tranquilli, e sua opera ultima. Dunque, il nostro povero padre – d’ora in poi, pp – s’è prestato giudiziosamente all’inesorabile kermesse imbastita dalle maestrine laiche nell’asilo nido gestito dalle suorine, dove il figlioletto di due anni e rotti consuma l’anteprima trancia del calvario scolastico. La festa del papà. Da celebrare con una poesiola buonista che strazierebbe il cuore d’un camionista uso ai contromano in tangenziale.

Il pp s’appressa coi molti al rito, nuovo per lui, e per darsi un tono e non destar sospetti sul fatto che lui è un padre davvero, rimesta al telefonino per ingannar l’attesa. S’entra, dunque, e ammaestrati dalle maestrine ci si dispone in fila nell’aula attrezzata ad hoc, dove i bimbetti stazionano sulle loro sediole e in un fiat distruggono l’accorta regia sbracciandosi – slanciandosi, i più audaci – verso i rispettivi genitori, strafelici d’accoglierli a braccia aperte e già coi lacrimoni al ciglio. Il pargolo del nostro, compostamente entusiasta, si limita a fare ciao con la manina al pp che si compiace per l’oculata scelta della vistosa maglia arancio, spiccosa sui grigiblu – grigichiaro per le bambine – che compongono l’abitume standard della figliolanza. E già smanetta col cellulare per riprendere – realizza adesso l’inevitabilità del fato – la performance filile. Ma, prono ai desiderata dei sospinti, per far spazio ai tutti perde la posizione migliore, poi al registrar s’impappa e manco una parola o un gesto dal vivo coglie, solo un fermo immagine privo di sonoro, prima che la poesiola finisca e lui possa abbracciare l’amato pargolo che gli saltella incontro coi donativi, imbeccato dalle maestrine.

Nell’ordine. Un quadernetto coi disegnini. Una coccarda con la dicitura: sei forte, papà. E, soprattutto, un originale porcellino plastico ricavato da una mezza bottiglia di minerale per cui s’erano amminchiate le maestrine, rara quanto il penny nero, e costata il rastrellamento d’ogni negozio della città. Chissasenevalevadavvero la pena di tanto rastrellare, pensa il pp mirando il porco. Rosa. Con la tenera poesiola su un cuoricino rosso appeso alll’incarto. E si chiede se sia più un bieco abbozzo di gendarismo sotto le tonache delle suore – fosse stato azzurro, almeno – o un’opera d’emulazione di papà pig. Nulla è peggio, per le giovanissime menti che lo guatano avide, di quel porco fattosi uomo, icona di un’umanità suinizzata e gaudente nel suo fango. Umano ridotto a maiale a vilipendio della paternità, costretto a diuturne malefigure dal femminame di casa e da una subdola regia. Ma tali divagazioni sono stroncate dal bimbo che riconduce il fatto alla sua essenza, restituendo l’oggetto al suo significato primo e sostanziale. Soldi. Occhieggiando d’intorno, il pp scorge altri d’altre sezioni, men fortunati di lui, sfoggiare coppe e diplomi invece del salvadanaio porcelloso. Il bimbo non ha da restar deluso del dono, costato settimane di duro lavoretto, e niuna ombra può far mostra di sé sul volto del genitore. Che, fatto sbarazzo dell’importuno pensare, s’acconcia allo spupazzo del figlio e s’accoda al sobrio buffet apparecchiato alla bisogna.

Senza perdere d’occhio il bimbo che, disdegnati al solito i dolcetti veleggia tra patatine e succhi, il pp occhieggia al comportamento degli altri padri, cercando di capire se il suo comportarsi è consono al luogo e all’occasione e, nel caso, conformarsi alla generale convenienza. C’è chi scatta selfie a raffica col gaudente pargoletto. Chi sta sdraiato al mezzo dello stanzone e giochicchia col bimbetto come fosse il salotto di casa. Chi lascia smanazzare al figlio i figli altrui senza curarsene, anzi con noncurante compiacenza. Chi infila la manona in gola al pargolo per tema che si strozzi col dolcetto timidamente ingollato. Chi si limita a sorridere beota al bimbo. È allora che il pp ha percezione del compito, troppo arduo per le sue sole forze. Non pago, tenta di carpire, tra quei piccini che fanno sfoggio di salda protervia o timidume, di bimbette già altere a fronte d’altre impacciate, se i loro caratteri saranno così, o quanto saranno diversi quando la vita li avrà attraversati e piegati del loro vissuto. E pare impossibile al pp che si materializzi lì, a quell’istante, un pensiero che non avrebbe dovuto avere spazio in quel luogo, anche se figlio del tempo.

Anche il figlio d’un assassino, un massacratore folle con le stimmate della perversione in odio al padre, un giorno avrà avuto un giorno così, un padre che l’ha abbracciato stretto senza sapere di stringere qualcuno che un dì, a telecamere accese, avrebbe detto d’aver massacrato e ucciso a sua colpa e spregio. E lui a perdonarlo. Senza sottrarsi all’obbligo di tentare di capire, che già è scusare. E pare impossibile, pure, che chi ha avuto senz’altro un giorno così, momenti di sentita falsità e amore, possa un giorno tramutare questo in odio, l’innocenza in sadica follia o, che è quasi peggio, indifferenza e abbandono. Così, al pp non resta che fermare lo sguardo sui tristi porcellini in un canto che nessun padre ha raccolto dalle mani del figlioletto, ché pure qualcuno di loro lavora duro e non s’è presentato, oppure non s’è prestato e se n’è fregato, e il figlio ha atteso invano. Ma non ha cuore, il pp, di chiedere alle maestrine che già battono le manine per la fine del tempo concesso, se i porci orfani della paterna mano siano doni mancati di figlioletti che alle tante ragioni per uccidere il padre aggiungeranno questa, la primigenia. L’occhio cerca piuttosto il figlio, vaga senza trovarlo d’attorno.

Il bimbo è scomparso, non è nella stanza, neppure nelle più presse, eppure tutti son lì, ancora, figli degli altri e padri loro, a sbracciarsi nei tardivi saluti. Il suo è là, nell’ultima stanza, o meglio la prima per chi entra nel suoresco asilo. Sperso nei fatti suoi, spalle alla porta e a lui. Che abbozza un saluto, ma già forte è l’urlo e lo schiamazzo d’intorno, il bimbo non sente o non se ne cura, e al pp non resta che ridiscendere le scale e sotto l’occhio vacuo di crocifissi e madonne altrove rimossi, sperdere il giorno e i pensieri nel sapere che la vita è questa, giusta è così. Neanche il tempo di fermarsi a pensare, e già tuo figlio è cresciuto e va per sé, non si cura di te.

Ah sì, la poesiola. Oggi mi batte forte il cuore/pieno di gioia e di grande amore/un regalino ti ho fatto perché/oggi papà la festa è per te.


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