Stuck, Franz von,
1863–1928,
German artist.

"Luzifer“ (Lucifer), c.1890.

Oil on canvas, 161 × 152 cm.

Inv. no. II–1–93
Sofia, National Gallery for Foreign Art. Scrissi d'arte

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Alle scuderie del Quirinale Jean Clair rivisita l’opera di Dante senza misurarsi con gli orrori coevi. L’eterna fascinazione del male di un Occidente incapace di sopravvivere ai propri miti

L’opera, in sé, non è granché. Più squietante che stupefacente, abbastanza iconica da guadagnarsi la locandina della mostra. Lucifero. La mostra, in sé, non è col botto. Ma sturbante quanto basta, e densa da valer bene l’ascesa, l’esposizione alle scuderie del Quirinale. Inferno. Qua, sul colle dove i sabini di Tito Tazio eressero il templum al loro dio Quirino dopo aver mazzolato benbene i romani, Jean Clair ripropone una mostra-monstre degna d’altri fasti e tempi. Un classico da millant’anni in qua.  Non è un caso se, nella storia dell’arte, il paradiso non ha suscitato grandi appetiti, il purgatorio nemmeno. L’inferno, invece, è tutt’altra faccenda. Non si gioisce d’eteree visioni, non si gode granché, ma non ci s’annoja per l’eternità. Inferno sia, dunque. Quello dantesco, magistralmente messo in mostra dal genio di Jean Clair, tra i pochi maestri sopravvissuti all’inverno della cultura occidentale, tanto per parafrasare uno dei suoi celebri saggi, si lascia gustare per la dovizia dell’apparato storico-iconico. Ma alla fine dei gironi allappa come l’uva acerba mangiata dai padri che allega i denti dei figli, come ammoniva il Geremia biblico. Si ha un bel dire che la cultura è morta se poi si gode a esercitarsi sul banco del cadavere. Ma procediamo con ordine.

Il bianco degli occhi del principe delle tenebre nella tela tardo ottocentesca di Von Stuck che ti fissa quasi a fine percorso non ha la pretesa del capolavoro, né suscita lo scandalo della porta dell’inferno di Rodin, calco in gesso dell’originale, che l’artista si trascinò nell’ultimo trentennio di vita e di carriera. Ancora capace di suscitare polemiche per amor di marketing più che per tardivi prudori. È questa copia di fine anni Ottanta ad aprire la mostra al piano nobile delle scuderie. Segue l’apparato iconico con cui l’Occidente ha rappresentato il male e fracassato i cosiddetti ai peccatori d’ogni risma, nei secoli dei secoli, elaborato da legioni d’artisti a scanso delle proprie colpe: diavoli e diavolesse, visioni infernali e peccatucci veniali. È l’inferno di Dante a far scuola, e sul tracciato del sommo poeta si snoda un percorso dove da Brueghel a Cézanne, da Goya a Barcelò si declinano viavia i temi del male eterno e della sofferenza terrena, della morte e del giudizio. Dai tormenti medievali alle rivisitazioni rinascimentali, dalle pulsioni romantiche agli orrori del Novecento, agl’inferni umani di guerra e prigionia, follia e olocausto. Ché, come ricordava Calvino nella frase posta a chiusa della mostra, l’inferno dei viventi non è nell’Aldilà ma è quello che costruiamo ogni giorno nell’Aldiqua, in cui sguazziamo da vivi.

Ben diciassette percorsi tematici dove alcuni passaggi pajono ridondanti, vedi la panoplìa su Paolo e Francesca e l’iconografia della coppia Dante-Virgilio, certe opere – ben 235 quelle esposte – sembrano star lì a far corpo, ma nell’insieme la discesa agl’inferi non può certo dirsi carente, o malfatta. Semmai tutto il contrario. Quel che lascia perplessi non è tanto il criterio espositivo, a tratti caotico e disfunzionale, e neppure la scontatezza del tema, nel settecentenario dantesco. Anche se la reiterazione dell’inferno sembra un omaggio più allo spirito del tempo, ai suoi orrori coevi, che alla Commedia. Però qualcosa non torna, il genio di Jean Clair sta sospeso sull’orlo del baratro. L’inferno in terra si ferma alla tragedia dei campi di concentramento, alla desertificazione industriale, alla guerra mondiale e al terrore globale: alle piramidi di soldatini nazisti squartati di Jake e Dinos Chapman e alle Torri gemelle in fiamme di Raymond Mason. Robe già d’antan.

Meglio sarebbe stato chiudere baracca e partita con l’universo concentrazionario pandemico, i nuovi orrori che s’apparecchiano per l’Occidente e ben oltre, i venti di guerra globale che tornano a soffiare e le illusioni ipertecnologiche. La sempiterna fascinazione del male d’un Occidente allo sbando, incapace di sopravvivere ai propri miti, non giunge a tanto. Gli basta rimasticare il già noto. Così s’esce, a riveder le stelle come vuole la Commedia dantesca, dopo un’ultima incongrua sala di costellazioni dove giganteggiano le kieferiane Stelle cadenti sull’uomo a torso nudo, inerme a tanto sbaraglio. Non senza gettare l’occhio alla frase di Simone Weil tratta dall’Uomo e il sacro, a muro: “Dalla prima infanzia alla tomba qualcosa in fondo al cuore di ogni essere umano, nonostante tutta l’esperienza dei crimini compiuti, sofferti e osservati, si aspetta invincibilmente che gli venga fatto del bene e non del male. È questo, anzitutto, il sacro d’ogni essere umano”. E così sia.

Inferno, alle Scuderie del Quirinale, fino al 9 gennaio 2022. Info www.scuderiequirinale.it

Sopra: Franz von Stuck, Lucifero, 1890 C. National Gallery, Sofia; Auguste Rodin, La porta dell’inferno, 1880-1917, C. Musée Rodin; in basso: galleria Manuela Giusto


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