Brigate romane

La fascia blu spicca sugli allori presidenziali. Unica nota verde frammista alle corone del palazzo, ai mazzi di fiori d’amici e d’ignoti, rinsecchiti. Svolazza al ponentino, la fascia. Chi l’ha messa dovrà forse rievocare davanti alla commissione stragi uno spiritello ciarliero, in quel di Zappolino. «Vorrei chiedere l’audizione di Prodi. Non tanto sulla seduta spiritica, quanto su chi era l’ispirato, visto che non crediamo agli spiriti. Il governo è convinto che stragi e misteri appartengano al passato, ma questa storia non è passata e tantomeno chiusa. Lo dimostrano fughe recenti».

 Le parole di Giacomo Pellegrino rimbalzano dalla presidenza della commissione parlamentare a via Caetani. Sul filo della memoria, la sbornia di celebrazioni e rivelazioni cede il passo al flashback d’un 9 maggio. Vent’anni fa. Stesso muro. Appena meno scrostato. Quando la fiamma ossidrica si smorza sulle lamiere della Renò rossa, lo squarcio rivela un corpo rattrappito in una grisaglia insanguinata. D’intorno flash e figure impazzano, nel vicolo ai margini del ghetto che si dirà a mezza via fra le Botteghe Oscure e piazza del Gesù, a dispetto dello stradario. Corre, la memoria. Rimanda alla mattina del 16 marzo, 54 giorni prima. Scopini che ramazzano, mentre il traffico delle nove si sfilaccia dalle consolari in centro. Gierre che gracchiano d’un governo di solidarietà nazionale al varo. Coi comunisti sulla soglia dopo decenni d’anticamera, grazie all’uomo su una Fiat 130 che a quell’ora scende da via Fani. Mezz’ora dopo, gli speaker raccontano dell’uomo sequestrato dalle Brigate Rosse e dei corpi della scorta riversi nel sangue. Il traffico s’impunta ai primi blocchi. Gli elicotteri volteggiano su Roma. L’uomo risale in una cassa di legno via Montalcini, si ferma nel garage al numero 8, pochi scalini più su viene stipato in un buco d’un metro per due. La prigione del popolo che l’ha reso capo d’una corrente del 5 per cento e arbitro d’un partito del 30, del destino politico del paese. Prigioniero d’un popolo che il cerchio d’una stella a cinque punte pretende contenere, stesa al capezzale d’una branda.

 Vent’anni dopo, il verdetto dato ad Aldo Moro da improvvisati tribuni del popolo riecheggia nelle aule dei tribunali, non è uscito dalla cronaca entrando nella storia. Le fila di questa pencolano e s’intrecciano fra le assise d’una commissione che a San Macuto tenta di sciogliere i nodi d’un trentennio di stragi e terrore, le stanze di una procura dove due magistrati indagano sul “caos Moro” che cinque processi e dodici sentenze non hanno districato e le mura del carcere di Rebibbia. Dove affiorano spezzoni dell’universo brigatista che tentano di ricucire il proprio vissuto. Sopravvissuti all’ideologia ma non alle lacerazioni d’una lotta che li ritrova divisi persino nei ricordi, svelati a bocconi. In attesa d’una amnistia «che tutto verrà ad obliare», per dirla come Carmine Pecorelli detto Mino, che quel caos ebbe a raccontarlo meglio d’altri e a morirne.

La storia della colonna romana delle Br, trascritta a metà sui faldoni che s’impolverano al Palazzaccio, è scritta nei brogliacci dei 149 inquisiti, su 911, che rappresentano più del 16 per cento dei brigatisti noti. Più di qualunque altrove, le Bierre figlie del nord trovarono nel ventre molle della capitale numeri per colpire e riflettori per contare. Segnando, col proprio, il destino dell’uomo di cui versarono il sangue che resta l’inchiostro d’una delle pagine più nere nella storia della repubblica. Un’anomalia che ad echi spenti del ventennale s’incastona fra tasselli di verità e misteri.

Zucchette e targhette

I contatti dei capi brigatisti con l’ambiente romano risalgono ai primi anni ’70. A darne il quadro basta il racconto che ne fa Valerio Morucci, personaggio chiave dell’Autonomia e poi delle Br a Roma: «Erano tipi tristissimi e anonimi. Ero arrivato all’appuntamento su una Mini cooper gialla, con una bionda. Loro vennero con un 850 grigio topo. Franceschini cinereo in faccia e nei vestiti. Moretti con uno spigato grigio e marrone, assurdo». Ricorda un protagonista di quegli incontri, Alberto Franceschini: «Non avevamo molta stima dei romani. Nessuno di noi lo era. Renato era nato a Monterotondo ma non c’era mai vissuto. C’era disprezzo per questa città senza fabbriche, inutile. Noi i soldi andavamo a prenderli nelle banche, loro s’arrangiavano. Rubavano teste delle statute nelle chiese e poi venivano a Milano: “compagno, vedi de piazzacce ‘sta zucchetta”, dicevano. La ritenevamo degradante una roba del genere. Nell’inverno del ’72 ci aggancia Morucci. Per noi era “il generale”, il capo militare di Potere operaio a Roma, l’uomo di Piperno. Andava spessissimo in Svizzera e nel Liechtstein. Comprava armi portandole in Italia nascoste nei cessi dei treni. Una volta l’hanno beccato a Chiasso, ma è restato in carcere una settimana. Subito dopo è venuto a chiederci di entrare nell’organizzazione. Decidiamo di no, c’era diffidenza. Manteniamo solo rapporti di scambio per le armi».

Roma resta congelata nell’ottica brigatista fino all’estate del ’74. Quando, nell’ambito del potenziamento della struttura periferica, le Br decidono d’aprire bottega nella capitale. Ricorda ancora Franceschini: «A Roma scendiamo io, Prospero Gallinari e Corrado Alunni. È il sequestro Sossi a convincerci della necessità di allargare l’organizzazione, nella logica dell’attacco al cuore dello stato. Così troviamo un monolocale vicino largo Preneste. L’idea che avevo era di Napoli come perno delle lotte nel sud, lì c’era il movimento dei disoccupati, mentre Roma doveva restare una base di supporto logistico per colpire le istituzioni. Perciò non contattiamo nessuno del giro dei “Volsci”, appena formato. Solo successivamente avviciniamo i “Tiburtaros”, un gruppo uscito da Potere operaio che si riuniva su un muretto al Tiburtino terzo».

La calata a Roma serve a prendere confidenza con le targhette dorate dei portoni del potere, e gli uomini che le abitano. Nel mirino dei brigatisti è il “Divo Giulio”, pedinato da Franceschini dal lungotevere a piazza Santa Maria in Trastevere, persino intruppato. «Ho avuto voglia di toccarlo per vedere che succedeva – racconta – dicevo a Renato: cazzo, sai che lì vai in giro e incontri ‘stì qua, tranquilli, senza scorta».

Il boccone pare tanto grosso quanto facile, ma l’arresto in coppia con Curcio blocca tutto. È Mario Moretti a superare lo stop. Con la messa fuori gioco dei fondatori e la morte di “Mara” Cagol ha carta bianca sul polo d’intervento al cuore dello stato. Nel marzo ’75 si stabilisce con Maria Carla Brioschi nel covo di via Gradoli 96, già usato da Morucci e da altri militanti “d’area” come sorta di garconnière, e fa proseliti. La colonna romana nasce quella primavera per fusione fra la testa morettiana e il corpo sciolto dell’Autonomia armata che funge da serbatoio di quadri e militanti. 

 Spezzoni e isole di Movimento trovano così il minimo comun denominatore e il massimo sogno da ardere. Il battesimo del fuoco è il 12 febbraio 1977, col ferimento di Valerio Traversi, dirigente del ministero di Grazia e giustizia. In quei due anni, mentre servizi e polizia sonnecchiano, l’arcipelago armato capitolino si raggruma nell’ipotesi iperorganizzativa dell’ultimo dei “vecchi” o si sperde nei mille rivoli d’una lotta in armi che arriva a contare ben 78 gruppi, tra cui i Piromani folli, i Nuclei sconvolti clandestini e i Teppisti armati di Portonaccio. A confluire nelle Br sono i gruppi più forti e motivati, dai Nap (Nuclei armati proletari) al Faro (Fronte armato rivoluzionario organizzato, da Ar (Azione rivoluzionaria) alle Fca (Formazioni comuniste armate). Entrano ufficialmente Morucci e Adriana Faranda, provenienti dalle Fac (Formazioni armate comuniste), dell’area dell’Autonomia. Bruno Seghetti, dai Cococe (Comitato comunista Centocelle, altra filiazione dell’Autonomia), con Anna Laura Braghetti, la sua ragazza, e Germano Maccari, il “quarto uomo” di via Montalcini. Poi Barbara Balzerani, Antonio Marini, Gabriella Mariani, Teodoro Spadaccini ed Enrico Triaca, dei “Tiburtaros”. E ancora Luigi Novelli, Marina e Stefano Petrella, Francesco Piccioni, Maurizio Iannelli e Marcello Capuano, già squadra clandestina da “Viva il comunismo”. Antonio Savasta, Emilia Libera, Renato Arreni, Alessio Casimirri, Rita Algranati. Via via s’uniscono Gallinari, evaso nell’aprile del ’77, Remo Pancelli, Alessandro Padula, Caterina Piunti, Giulio Cacciotti, Cecilia Massara, Odorisio Perrotta, Alvaro Lojacono, Salvatore Ricciardi. Nascono le brigate, sei, ribattezzate coi nomi delle borgate o delle realtà sociali dove più forte è il radicamento: Centocelle, Primavalle, Torre Spaccata, Universitaria, Logistica e Servizi. Ognuna conta dai tre ai cinque regolari: 35, 40 militanti in tutto, fino ai primi del ’78.

Attorno ad essi un centinaio di simpatizzanti o irregolari che seguono la linea senza un inquadramento gerarchico e un’area quattro volte più vasta dove nuotare. La prassi aggregativa e di lotta è nelle occupazioni dei caseggiati a San Basilio, nei cortei dei tramvieri e d’altri, nei dibattiti universitari alla Sapienza, nell’antifascismo militante. Moretti e Gallinari reggono le fila della colonna assieme a Morucci, alla Faranda e a Seghetti, già fili conduttori dell’Autonomia, e alla Balzerani, più defilata. Al tavolo della direzione si parla romanesco ma la testa è altrove, è Moretti. L’unico a tenere i contatti con l’esecutivo settentrionale, con l’“anfitrione” fiorentino e il centro estero.

«Col senno del poi – confida la Braghetti nel suo memoriale come carceriera del popolo – credo che i compagni romani fossero davvero troppo diversi per intendersi fino in fondo coi brigatisti venuti dal nord, tipo Moretti e Gallinari, che continuavano a tenere in pugno il potere. Roma non era il triangolo industriale, gli operai non erano una presenza significativa. Ovvio che fra Valerio e Adriana e quelli del nucluo storico ci fossero intenti comuni ma opinioni molto differenti sui metodi e sui punti di riferimento».

Metodi e punti di riferimento, appunto. Il partito armato agganciato più alla guerriglia internazionale, dalla Raf all’Olp, che ad obiettivi di lotta nazionale per i due, già afiliati al “superclan” – i superclandestini della prima ora, nello sfottò coniato dai capi brigatisti in carcere, legati all’Hyperion parigino del trio Corrado Simioni, Vanni Mulinaris e Duccio Berio, in odore d’Internazionale socialista e servizi segreti francesi e israeliani – e gli altri, ex Autonomi orbitanti nelle anticamere del Psi come nelle assemblee del Movimento. Per i quali le lotte avevano da stare alla coda di questo, agganciati ai “bisogni delle masse”, per non alzare troppo il livello dello scontro e spaccare tutto. Differenze che s’innervano nel corpo di chi chiazza di sangue e sogni i fondali del Cupolone e l’orizzonte del compromesso storico. Percorsi e distinguo portanti l’architrave della lotta del partito armato al cuore dello stato dal suo centro, che “L’operazione Fritz” , come in codice è definito il rapimento dello statista dai brigatisti, suggella.

L’operazione Fritz

«Mario resta fino alla fine dell’operazione Moro, poi torna al nord e lascia la responsabilità a noi romani. Io, con Savasta, sono entrato allora nella direzione della colonna, diretta da Seghetti, in sostituzione di chi tornava su. Eravamo sei romani e Gallinari. Dopo l’ingresso in clandestinità, entra anche la Braghetti». Ex lottatore, membro della direzione di colonna e comandante delle brigate Torre Spaccata e Logistica, Francesco Piccioni è quel che si dice un irriducibile. Un lavoro esterno al Manifesto e un mattino da salutare dietro le sbarre, da 18 anni. Quando la colonna mette assieme i pezzi sparsi di Potop ne ha una manciata di più. Ricorda: «Nel ’74 le lotte in fabbrica avevano toccato il tetto, il potere vero non era lì. È inutile partire dall’Aspromonte o dalal valtellina, a Roma devi starci, l’assalto al Palazzo d’Inverno come lo fai? Due venuti dalle grandi fabbriche del nord per noi rappresentavano la classe operaia, non erano inconcludenti come certi studenti o “leaderini”. Le Br portavano uno stile diverso. L’intuizione che, di fronte alla frammentazione gruppettara, l’unico modo di superare lo stallo era era nell’organizzazione delle lotte. E la capacità di starci dentro è confermata dal fatto che la colonna romana è l’unica a sfornare militanti ad anni ’80 avanzati, quando la spinta sociale è esaurita da un pezzo».

Alla metà degli anni ’70, dunque, per le Br cade un muro: lo stato non è più incorporeo e distante, ma tanto vicino da essere toccato con mano. Un altro invece resiste, e su quello s’infrangerà la marea montante della colonna come del partito armato. Nella fase di passo fra propaganda armata, per forza di cose condotta da un nucluo di fuoco ristretto, e guerriglia diffusa, aperta alla centripeticità del movimento, le Br lottano contro lo stato e al tempo stesso per l’egemonia sulle diverse componenti della scelta armata. Un nodio che, irrisolto, si sarebbe sciolto solo con la loro fine e la scissione fra il partito della guerriglia e quello delle unità combattenti, prima ancora della stagione del riflusso, ma che intanto vede vari spezzoni del Movimento flirtare con stella brigatista. A mezza via e in un’ottica unitarista Morucci e la Faranda ipotizzano una cerniera fra la lotta al cuore dello stato delle Br e quella per i bisogni concreti delle masse (casa e lavoro), portata avanti dall’Autonomia dei Pace – brigatista a tutti gli effetti per una breve stagione – e dei Piperno da cui provengono.

Dall’assessorato alla Cultura di Cosenza Franco Piperno, leader storico dell’Autonomia, s’affatica a smontare gli strascichi del teorema che lo volle corrèo dei brigatisti. Imputato eccellente per fiancheggiamento e insurrezione armata nell’inchiesta condotta a suo tempo da Ferdinando Imposimato. «La struttura a cerniera della quale saare stato ispiratore sta solo nelle allucinazioni di certi magistrati. Certo, le Br si presentavano nel magma del Movimento come un’isola dalle certezze definite, anche se illusorie. L’illusione del loro successo militare fu accecante, ma non ebbero mai la possibilità d’egemonizzare il Movimento. Però offrirono su un piatto d’argento al governo e al Pci la possibilità di un’azione repressiva generale. Uccidere Moro fu un grave errore anche per loro, quella fu una rivoluzione mancata. Un fatto comunque formidabile in un paese povero di rivoluzioni come il nostro».

Compendio d’idealità rivoluzionarie e contraddizioni interne è il sequestro dello statista, capro espiatorio d’una Dc reputata ganglio vitale del Sim, lo Stato imperialista delle multinazionali, in casa nostra. Un’azione che la direzione strategica tiene in cantiere un anno prima d’affidare alla colonna romana, a partecipazione mista e gestione nordista. «I militanti delle altre colonne sono necessari anche da un punto di vista simbolico: quella è l’azione più importante delle Br, non è un’azione cittadina, non sono i romani a rapire Moro», precisa Piccioni. Che rimette assieme i pezzi del puzzle su via Fani, senza misteri e deviazioni. «Moro non si poteva prendere se non lì, dove tutti gli avversari erano concentrati e sotto tiro. Per quell’azione servivano nove uomini e una staffetta, non uno di più e nemmeno una moto, che non usavamo mai. I romani si conoscevano, avevano preparato l’azione nei mesi precedenti, provandola forse un paio di volte. Doveva farsi riconoscere chi veniva da fuori ma non è per questo che si veste da “steward”  dell’Alitalia. Davano meno nell’occhio quattro fermi all’incrocio con quelle divise che erano state viste spesso. Sapevamo che quella mattina Moro avrebbe presentato il governo alle Camere, ma è sttao un caso che fossimo lì e riuscisse tutto».

Le modalità dell’agguato e del sequestro resteranno il primo anello d’una catena di ben altri punti oscuri. Di certo un’azione cruenta come quella, sotto gli occhi di decine di testimoni anziché nel silenzio d’un giardino o d’una chiesa, con cinque morti a zavorrare da subito ogni ipotesi di trattativa – come lamenta persino Maccari – è frutto d’una scelta precisa e non del caso, contiene in nuce la doppia logica brigatista d’alzare il tiro e mettersi in mostra. Anche a livello internazionale. Lo sintetizza, al meglio, il comunicato sulla “Campagna di primavera” steso nel marzo ’79. dallo stesso gruppo storico che in carcere vede passare sopra la propria testa le scelte dell’organizzazione esterna. Scrivono Curcio e Franceschini: «Dopo il 16 marzo l’esistenza di un potere rivoluzionario non può più essere taciuta e… la necessità di schierarsi si mette a fuoco nella coscienza di ciascuno… Le azioni belliche come la cattura, l’imprigionamento e l’esecuzione di Moro e la grande quantità di attacchi che l’hanno affiancata durante la campagna avevano per scopo non soltanto quello di disarticolare il nemico ma si proponevano anche (ed è questo un aspetto essenziale della guerriglia urbana in questa fase) di procurare vantaggi politici al movimento rivoluzionario e al partito».

Lo prova, pure, il documento sulla “quinta colonna” parigina classificato come “reperto 142” nel verbale steso d Impoosimato, sequestrato nel covo di tor sapienza nell’81. La prtaica della guerriglia versa copsì il suo tributo di sngue alla società dello spettacolo e dell’emulazione. Di fatto sono centinaia gli arruolandi dopo la “campagna di primavera”. Persino troppi da gestire, resteranno congelatil, come ammette ancora Piccioni lumeggiando la logica interna del sequiestro Moro e la non necessità della sua morte, almeno all’inizio. E tantomeno quella d’un fantomatico riconoscimento: «Un gruppo rivoluzionario non chiede all’avversario d’essere riconosciuto, gli basta esistere, agire. La stronzata del riconoscimento è nata annio dopo, ai processi, quando per negare che fossimo prigionieri politici ci attribuirono di averlo voluto ottenere sequestrando Moro. In quel momento stavamo attaccando il governo di soldarietà nazionale. Ci serviva la manifestazione d’una contraddizione, un successo concreto che non portasse necessariamente alla liberazione dei compagni. Che ci permettesse di dire, come per Sossi, abbiamo raggiunto l’obiettivo e lo molliamo. Tentavamo una strada ogni giorno».

 Laghi di ghiaccio e docce aperte

Punto di svolta è la scoperta del covo di via Gradoli, causata dalla doccia rimasta aperta, e il famoso comunicato numero sette sul cadavere dello statista nei ghiacci del lago della Duchessa. Battuto a macchina dal falsario Antonio Chichiarelli, detto Tony – come il numero dieci, a esecuzione avvenuta, meno famoso ma non meno importante – tramite tra mala romana e servizi segreti, ammazzato nell’84. Dice Piccioni: «Prima di quel falso comunicato pensavamo che si potesse aprire uno spiraglio nel famosso partito della fernmezza. Quella messinscena ci dimostrò che nessuno voleva trattare. Ma non è vero che affrettò i tempi del sequestro: Roma era una città blindata, non potevamo andare avanti indefinitamente. E l’interrogatorio non portava a niente. Nell’organizzazione clandestina ne discutevamo l’andamento, Moro non rispondeva, non collaborava, faceva lunghi discorsi politici. Gladio non l’ha mai nominata, ha detto che esistevano strutture controinsurrezionali dello stato. Lo sapevam o, ci davano la caccia. Chi fossero i capi, dov’erano, questo avrebbe dovuto dirci. Si aprì in quel momento il dibattito interno su una diversa soluzione del processo».

 Afferma Franceschini: «Con via Gradoli e la Duchessa si chiuse ogni spazio anche con chi si diceva disponibile, coi socialisti. Noi alla metà d’aprile proponemmo come base di trattativa la chiusura delle carceri speciali. Dicemmo all’avvocato Guiso: dì a Craxi che se c’è una dichiarazione pubblica sulla chiusura dell’Asinara noi siamo disponibili a dire in aula che Moro va liberato. A quel punto per quelli fuori ammazzarlo sarebbe stato un casino. Non ci hanno mai detto sì eppure, un anno dopo, si giunse alla liberazione di D’Urso proprio con la chiusura dell’Asinara. L’hanno sempre continuata a menare con la storia del’uno contro uno. Una situazione pazzesca. Colpa dei compagni che non sono stati capaci d’uscire da queell’imbuto. O non hanno voluto». Membro della segreteria socialista e tramite fra l’autonomia dei Pace e Piperno e il Psi di Craxi e Signorile, l’ex senatore Antonio Landolfi ricorda, nel salottino che dà su castel Sant’Angelo: «Alcuni erano miei studenti a sociologia. Pace era nipote di un nostro compagno aquilamno, Piperno l’ho conosciuto a una matrimonio. Quell’ipotesi la prospettò Guiso ma non ci credette nessuno, e poi l’organizzazione esterna restava dell’idea dello scambio. Noi non potevamo decidere per tutti, non potevamo inasprire i rapporti con una polemica pubblica».

 Da Milano Giannino Guiso, l’avvocato che tenta di trascinare via Bettino l’Africano dalle secche di Tangentopoli e allora tenne le fila della trattativa, ha ancora in borsa sei caapitoli mai pubblicati di un saggio su quel sequestro. «Contengono pettegolezzi, cose che non potevo provare. Quel che è certo è che le Br non volevano ammazzare Moro. Ci furono tirate per i capelli». Prosegue Piccioni: «Facemmo un sondaggio interno verso il 20 aprile, dopo il famoso comunicato della Duchessa, sia a Roma che a livello nazionale. Avrà coinvolto in tutto 200 militanti. Io ho partecipato alla discussione nella “Logistica” di Roma, dove il responsabile in quel momento era Morucci. C’è questa alternativa, si disse: lasciarlo andare o tirare dritto. Liberarlo senza avere niente in cambio voleva dire non essere in grado di andare avanti, potevamo tornarcene tutti a casa. Cossiga l’ha detto, l’avrebbero messo in quarantena, fatto rientrare in circolo come uno dei loro. Il sondaggio fu necessario perché se non ci fosse stato consenso ci saremmo spaccati il giorno dopo. Chi oggi dice che non era d’accordo mente, o non parlò. Solo Morucci, la Faranda e un altro paio di militanti si dissero contrari all’esecuzione. Anche Moretti fece questa scelta obbligata pieno di dubbi».

 L’esecuzione di Moro innesca comunque la spaccatura della colonna romana, coi due dissidenti che con altri cinque danno vita, nel gennaio ’79, al Movimento comunista rivoluzionario. La prima scissione dell’universo brigatista. La fuga di Morucci e della Faranda la vivemmo come tradimento, altro che scissione – prosegue Piccioni – quei due erano stati congelati in attesa d’una discussione della direzione di colonna. La faranda era anche membro della direzione strategica. Per loro il partito non serviva, esprimevano la tendenza a una linea lasciata all’interpretazione dei gruppi locali. La scissione vera è dell’81. Con l’arresto di Moretti c’è l’esplosione delle Br. Colpa dei milanesi che vanno per conto loro, convinti d’avere l’appoggio di Curcio e Franceschini. Anche loro, con Senzani e i napoletani, proponevano un tipo di guerriglia meno centralizzata, pensando che esistesse una vaastissima area disposta alla lotta armata ma non a riconoscere l’egemonia delle Br. Nell’agosto di quell’anno la colonna romana, più responsabile e numerosa, tenta una mediazione consapevole che una frattura è la fine. Ma i negoziati non riescono».

 La meteora brigatista impiega anni ad eclissarsi, spenta dalle proprie contraddizioni e dal raffreddarsi del magma sociale da cui nasce. Cuneo tutt’altro che impenetrabile a infiltrazioni di varia natura. A Roma come altrove, prima dell’arresto e delle confessioni di Savasta sono proprio gli infiltrati a far schiantare l’organizzazione. Diverse sono le matrici dell’infiltrazione nelle Br che si ramificano dai servizi segreti. Unificate, forse, solo nelle trame piduiste del “Venerabile” Licio Gelli. Ha propri infiltrati Federico Umberto D’Amato, a capo dell’ufficio Affari riservati al Viminale, inzeppati nei gruppi dell’Autonomia romana. Ne ha il Sisde, specie il suo “ufficio D”, retto dai generali Gianadelio Maletti prima e Giovanni Romeo poi, che grazie a loro arresta per la seconda volta Curcio. Ne hanno infine i carabinieri, sia i nuclei speciali di Dalla Chiesa, disciolti nel ’75 e ricompattati nel ’78 – “Frate mitra” è dei loro, come pure “Grifone”, confidente dell’allora capitano Delfino che porta all’arresto e alla tentata eliminazione di Semeria e “Davide”, tramite della scoperta del covo di via di Monte Nevoso, a Milano, proprio nel ’78 – che i reparti operativi. Come quello del colonnello Antonio Cornacchia (piduista e numero due del Sismi) a Roma, infiltratore di Paolo Santini, a contatto col vertice brigatista ben prima e assai oltre l’affare Moro.

 Santini è sicuramente un infiltrato – ammette Piccioni – ma in un collettivo autonomo, non nelle Br. Io sono stato arrestato in seguito a quell’operazione, lo so bene, sono arrivati a noi pedinando gli altri. Ma le infiltrazioni hanno funzionato per gli arresti, non per agire dall’interno delle Br. Che poi qualcuno, nel “Palazzo”, si sia avvantaggiato del fatto che noi avessimo preso Moro, è molto probabile. Come diceva Gramsci: in politica, qualsiasi cosa si faccia si fa anche il gioco di qualcun altro, l’unico modo di fare solo il proprio gioco è vincere. Nego però che qualcuno possa aver condizionato le nostre azioni. Stiamo parlando di centinaia di persone, certe manipolazioni funzionano con le piante, mica con gli uomini. Che ci abbiano lasciato fare è un’ipotesi che spiega tutto e nulla. I veri misteri sono loro: della Dc che non può raccontare il marcio che aveva dentro, del Pci che non può svelare l’asservimento a Mosca ancora in quegli anni. Noi siamo gli unici a dire chi eravamo, ad aver avuto una vita in cui riconoscerci. Ma questo gioco finirà. Da qualche archivio, alla fine, salteranno fuori le spiegazioni dei misteri».

 «Abbiamo incaricato due esperti di raccogliere il materiale su Moro presente negli archivi americani e russi – fa eco il senatore Pellegrino da palazzo San Macuto – e stabilita una sottocommisssione che faccia il punto sulle certezze raggiunte sul caso. Le riassumo. Quello di Moro è un sequestro annunciato. L’area dell’Autonomia ne era a conoscenza, anche Renzo Rossellini l’aveva preannunciato da radio Città futura. E lì gli infiltrati c’erano. Dunque perché il sequestro non è stato impedito? Tra gli apparati di polizia c’era disorganizzazione ma anche dell’altro. Poi quello di Moro è un sequestro colabrodo. Lettere che vanno e vengono, incontri frequentissimi fra vertici socialisti e militanti delle Br. La prigione era ben individuabile, insomma. Di certo quando si trtatta di recuperare non Moro ma le sue carte, il memoriale portato a via di Monte Nevoso, gli apparati di sicurezza ritrovano tutta la loro influenza, grazie agli infiltrati».

 È anche la tesi di Sergio Flamigni, che al “caos Moro” ha dedicato una battaglia politica e più d’un libro. Compreso l’ultimo con le rivelazioni, oltre che su Francesco Marra, infiltrato da D’Amato fra i sequestratori di Sossi, sul covo di via Gradoli, ingolfato da occhi e orecchie del Sisde. «È poco dire che siamo un paese a sovranità limitata – si sfoga a due passi da palazzo Madama l’ex senatore del Pci – abbiamo apparati dello stato diretti dall’estero, un governo occulto che sovrintende all’attività terroristica, sfruttando spinte ideologiche e sociali. I brigatisti pensavano che una parte del Pci li seguisse. Guai a credere che siano un fenomeno esterno, dico solo che è stato permesso loro d’agire. Finora i processi hanno mirato alle loro responsabilità, ma niente è stato fatto per individuare quelle all’interno dello stato. Ecco il capitolo da esplorare. Lì si troverebbe la spiegazione vera del delitto Moro, nel portare alla luce le convergenze parallele tra i brigatisti e chi gli ha concesso spazio».

 Dello stesso avviso è Franceschini: «Se fino al ’74 ci sono almeno tre infiltrati al massimo livello è impossibile che poi questi scompaiano. Ce n’era uno pure nel sequestro Sossi, come ha raccontato Flamigni, e lì c’ero anch’io. Pure lì Moretti e Curcio fecero un sondaggio e saltò fuori che l’ostaggio dovevamo ucciderlo. Dipende da come lo imposti, il sondaggio. Comunque Santini è un infiltrato secondario. A livello europeo c’era un’organizzazione che considerava i diversi gruppi, le Br, come queste vedevano il collettivo: sezioni locali da guidare in una direzione più rivoluzionaria, nell’ambito di un’organizzazione complessiva. Esistevano varie linee d’infiltrazione. Il punto chiave è Parigi, questi che noi chiamavamo il “Superclan”. Nel settembre ’77 affittano una casa a Roma, in via Beato Angelico, e ci restano fino alla fine di giugno del ’78. Forse chi scrive le domande per Moro le passa a Moretti da lì. Dall’altra parte un certo potere ha giocato con noi come il gatto col topo. Ci hanno lasciato fare, non solo i nostri servizi deviati dagli americani. Alessio Casimirri, rifugiato in Nicaragua via Parigi e Mosca, deve aver avuto complicità nei servizi dell’Est. L’eurocomunismo di Berlinguer scombinava pure il gioco dell’Urss. La chiave di quel sequestro è Yalta, eravamo un paese di frontiera».

 Due minuti come vent’anni   

Via del Beato angelico è tozza e placida. Quale beffa se le fila dei misteri si dipanassero da lì, a due passi da San Macuto dove se ne cerca il bandolo. Da lì in due minuti si è in via Caetani, al quartiere ebraico. Dove il giudice Imposimato, fra gli altri, colloca un covo ancora ignoto. «C’è la terstimonianza di Elfino Mortati, pentito della colonna fiorentina – ricorda il magistrato – io e il mio collega Priore lo portammo in giro intorno alla Sinagoga, ma lui non ricordò dov’era stato ospitato da Morucci». Vent’anni dopo il cerchio si chiude lì, al ghetto. Come le certezze discendono dalla dinamica dei blocchi incastrata nelle speranze d’una generazione «con troppo Dio», come recitato da Marco Baliani fra i ruderi della Città eterna ricordando Moro, da lì si dipanano i misteri. Dalle due ore, almeno, che passano fra l’esecuzione del presidente diccì, collocata dai brigatisti alle sette del mattino, nel garage di via Montalcini, e la perizia medica che ne posticipa la morte alle nove.  Due ore di troppo perché la cronaca di quei due mesi argini la storia. Passate non certo a scorrazzare per Roma nel traffico dell’ora di punta su una macchina che era un simbolo, con un cadavere a malapena coperto, in un bagagliaio scoperto. Passate forse nel palazzo col passo carrajo raccontato da Pecorelli prima d’essere ammazzato.

 Un passo carrajo è a ridosso della chiesa di Santa Maria sopra la Minerva, in via del Beato. Un altro all’esatto opposto, passando per via Caetani. Al numero 30 di via di Monte Savello (dove le versioni di tutti per l’ultima volta collidono), un’orsa di marmo zoppa s’affaccia su un passo carrajo che ingoja sei palazzine. Oggi uffici, fra l’altro, di Adn Kronos e Paribas. D’una di esse c’era telefono e pianta, nel monolocale di Moretti. Proprietà della Savellia srl, amministrtata da vent’anni dallo studio oggi retto da Andrea e Vittorio Colmo: «La sede legale è ancora qui, ma noi abbiamo tenuto sempre e solo la contabilità della società, non sappiamo altro», rispondono i commercialisti dallo studio di largo Antonelli, dove hanno sede varie società inquisite nel ’94 per i fondi neri del Sisde, come la Palestrina III. E altro non dice l’amministratore giudiziario di questa, trincerato dietro al segreto d’ufficio. Oggi, come vent’anni fa, solo due strade sono possibili per chi da via di Monte Savello s’inoltra nel ghetto, a via Caetani. Sfilare dalla sinagoga e rasentare Botteghe Oscure, davanti ai presidi di polizia e carabinieri. O risalire via del Teatro di Marcello. Due minuti esatti, a passo d’uomo, anche da lì. «In via Caetani, per i pochi minuti necessari, eravamo superiori», raacconta Moretti. Due minuti lunghi vent’anni.