
Dopo la guerra dei dodici giorni, la tregua salvamondo. Trump tra bluff e mazzate, il futuro che sarà. L’ennesimo colpo di scena dopo la spacconata spariglia le carte ma non cambia il gioco
Ebbene sì, abbiamo scherzato. Anche nel mondo nuovo la tempesta precede la calma, e così dopo le bombone di Big Don e le bombette d’Alì, è calma piatta tra i contendenti, con Bibi che se la ride sotto ai baffi. Diciamolo subito. Se avessi avuto un dollaro da giocare sulla presidenza Trump come fattore di pace o di guerra, l’avrei puntato su di lui. Che, aldilà delle fanfaronate dell’uomo e della vocazione imperiale dell’America a stelle & strisce e alla frutta, il bispresidente pareva meno manovrabile e rincoglionito del suo predecessore, assai meno legato di Rimbam Biden al complesso militare. E invece. Il 22 giugno 2025 forse resterà nei libri di storia come il 24 febbraio di tre anni fa. Allora Putin decise di mettere un freno all’espansionismo statunitense e della Nato a Est, alzando la posta di un conflitto in atto in Ucraina da un decennio. Tre anni di guerra non sono bastati all’uno o all’altro dei contendenti che a divaricare le posizioni, spingendo l’ex repubblica sovietica, culla della Russia moderna, a una guerra fratricida e l’Europa a una sudditanza economica e militare sempre più cieca agli Usa.
Tre anni dopo, e dopo la promessa di Trump di mettere fine al conflitto, questo non solo ristagna, ma sul tavolo da poker della geopolitica globale la posta raddoppia e in gioco non c’è solo il destino dell’Europa orientale o dell’Europa tout court, ma del mondo. Se a Est i servizi inglesi si danno da fare per assestare duri colpi all’orso russo – vedi l’operazione dei droni contro i bombardieri strategici russi che ha messo alla berlina Mosca una volta di più – come dall’inizio della guerra e da sempre, altrove Trump ha pensato di riprendersi la scena nel modo a lui più congeniale. La forza bruta e le chiacchiere a vanvera, il colpaccio mediatico dopo le botte da orbi. Tutto è iniziato con un discorso breve, intenso, degno d’un leader se non fosse solo un prestigiatore di bassa lega che gioca coi destini del mondo. Vedi il video su https://www.youtube.com/watch?v=aMhKhAuwMh4
Dietro – davanti? – a lui Bibi, debitamente citato e ringraziato nel discorso presidenziale che formalizza l’entrata in guerra degli Usa, senza dichiarazione formale, ringrazia e passa all’incasso. India e Cina restano a guardare, ma all’aprirsi delle cateratte il Kashmir e Taiwan – meglio, Formosa – non resteranno all’asciutto. Ma riepiloghiamo i fatti che avvicinano il mondo all’abisso della terza guerra mondiale come mai prima d’ora, al netto delle pagliacciate mediatiche, vagliamo gli sviluppi.
Le questioni sul tappeto sono tre. Perché Israele ha deciso d’aprire il sesto fronte di guerra – dopo Gaza, Siria, Libano, Cisgiordania, Yemen e Iran, il più letale – mentre è tutt’ora in corso il genocidio palestinese ben oltre la Striscia. Perché gli Usa sono intervenuti a dara man forte all’attacco israeliano al regime degli ayatollah che da decenni è sotto botta dell’arcinemico sionista. Infine, cosa succederà a breve e nel medio termine, dopo la farsa dei bombardamenti preannunciati e della tregua annunciata.
Israele ha deciso di lanciare un attacco preventivo ai siti iraniani alla viglia dei colloqui sul nucleare in corso a Washington per boicottarli una volta per tutte e chiarire, una volta di più, che la bomba atomica in Medio Oriente possono averla solo loro, sola potenza regionale per non dire mondiale e i soli, insieme agli Usa, che non hanno sottoscritto alcun accordo di non proliferazione atomica. I sionisti ne hanno tra le novanta e le 200 stoccate nei loro magazzini “supersegreti” a Dimona e loro sì sono pronti a usarle alla peggio e senza scrupoli: muoia Sansone con tutti i Filistei, cioè i palestinesi del tempo, come raccomanda la Bibbia.
Tutti lo sanno, è un segreto di Pulcinella che nessuno vede, tantomeno l’occhiuto servo sciocco di Rafael Grossi, direttore dell’Aiea che balbetta le sue accuse agli altri. Gli altri, specie l’Iran che pretende di menomare lo strapotere di Tel Aviv, stiano a cuccia. Ma non è solo questione d’atomica o di rovesciare il regime degli ayatollah, com’è nei desiderata di tel Aviv e dell’Occidente da sempre. Dopo l’Afghanistan, l’Iraq, la Libia e, buon ultima, la Siria, il destino della Persia è quello d’essere spezzonata e ridotta a enclavi, per meglio essere dominata e sfruttarne le risorse, con buona pace del diritto internazionale e delle anime belle che piangono sulle atrocità dei pasdaran. Reza Pahlavi, l’erede dello scià già spodestato fa sapere che lui non si tirerà certo indietro davanti al compito d’onore e di libertà. Che magnifico futuro s’apparecchia per gli orfani degli ayatollah.
A tanta bellezza il regime sciita può opporre chiacchiere e poco altro. Israele vede e prevede, ha creato Hamas contro l’Olp, come molti dimenticano cianciando sul massacro del 7 ottobre, e l’ha usato per poi stritolarlo alla menoma occasione, in una strategia dell’infiltrazione che fa impallidire quella della tensione. Lo stesso dicasi per Hezbollah sotto comando iraniano, infiltrato del pari, come gli aggeggi esplosivi che hanno stroncato i suoi militanti hanno mostrato. Eretz Israel, la grande Israele, non è mai stata così vicina al suo farsi, e che a realizzarla sia Netanyahu, un macellajo che se smettesse d’appiccare fuoco al mondo blaterando di pace sarebbe gettato nelle patrie galere per i suoi intrallazzi è un paradosso del tutto marginale nella partita in gioco. Però neanche le formidabili risorse d’intelligence e militari d’Israele bastano. Il serpentone iraniano è un boccone troppo grosso anche per la gracidante ranocchia di Bibi. Dopo mesi di campagne militari senza soluzione di continuità e undici giorni di guerra i missili continuavano a cadere sul sacro suolo di Sion e allora serve l’amico buono, quello che ti leva dagl’impicci anche se lo svegli in piena notte.
Così entra in gioco Trump il pacificatore. Manda nottetempo, dal Missouri, sei bombardieri Stealth a sforacchiare con una dozzina di bombe di profondità il bunker sotterraneo superprotetto di Fordow dove i cattivi iraniani stavano costruendo la bomba – verità che tra qualche tempo scopriremo fondata quanto i famosi gas di Saddam – e chiede la resa senza condizioni a Khamenei. Arrendersi o perire. Nel gioco delle parti a Gerusalemme gongolano, a Washington gonfiano il petto come tacchini per la riuscita dell’impresa e a Teheran strillano, qualche missile casca a vuoto nelle basi Usa in Qatar. Prima i soliti comploanalisti, poi tutto il circo mediatico dicono che è tutta una macchietta, spettacolo buono per il pubblico della balconata, come avrebbe detto il grande Céline: tanto gli uni che gli altri hanno preavvisato il nemico e i danni sono minimi. Restano i tanti morti ammazzati sul terreno, inutili. Tant’è, giocare col fuoco non ha mai portato bene, nella calura estiva. Fatto è che dopo le mazzate arriva l’offerta di pace e tutti ci stanno, fingono di crederci. Fino al prossimo missile.
Di reale – non di vero, per carità – c’è che il mondo è un posto un tantino meno sicuro dopo la guerra dei dodici giorni che l’ha portato sull’orlo dell’abisso come ai tempi della crisi di Cuba. L’ennesimo bluff dopo la spacconata spariglia le carte ma non cambia il gioco. La repubblica islamica dovrà cadere, bomba o non bomba, perché così vuole il macellajo di Tel Aviv e la superpotenza lo segue, obbediente. L’Europa segue a ruota e riarma, vagisce come una creatura nella culla, neppure consapevole di quel che l’attende, dominata com’è da elite burocratiche al servizio dei poteri davvero forti e succubi a chi ne ha deciso il crollo. Teheran è la via di passo per Pechino, come Damasco lo era per Teheran, i tempi stringono prima che lo scontro si faccia globale e davvero letale, con l’inciampo di Mosca nel mezzo che però ha già mollato la partita mediorientale.
Colpi di scena e spacconate non salveranno gli Usa dal suo declino, tantomeno un tristo pagliaccio dal cappellino rosso renderà l’America – gli Stati Uniti, please – di nuovo grande. Il Maga è uno spot, al massimo un programma, non sarà mai una realtà. La guerra infinita per impedire un futuro policentrico all’umanità, il caos globale che ne verrà, è già scritto nel vaticinante saggio di Jacques Attali, ex consigliere dell’imbelle Macron: Breve storia del futuro. Il resto è cronaca, bomba o non bomba. Che, parafrasando Venditti, non ci porterà a Roma ma a fare un bel botto, all’inferno in terra. I guerrafondaj da salotto, gli ignavi della geopolitica, gli orfani del buonsenso e i partigiani delle opposte sponde lo sappiano: salteranno tutti, e primi fra tutti i grilli parlanti. Senza più un dollaro in tasca.
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