Ciao Papi banana, ci mancherai Belpaese

Limiti e pregi di un personaggio che ha permeato di sé trent’anni di storia del Belpaese

Tra i tanti epiteti, quello a me più caro – al punto che avrei voluto farne titolo d’una storia tenuta qualche tempo nel cassetto – ché lo rappresenta al meglio è Papi banana. Papi, con quel tanto di paternalistico, d’affabile che l’uomo trasmetteva, col suo faccione di palta e il vociare metallico da buon padre di famiglia, appunto. Banana perché alla bonaria paternità univa la priapesca nefandezza del padre incestuoso che s’ingroppa – metaforicamente parlando – i figli, gl’italiani che in lui si rispecchiavano in buona parte. Così, la dipartita del Berlusca rappresenta l’occasione di tirare un frego sul personaggio che ha permeato di sé la storia del Belpaese nell’ultimo trentennio e sull’Italia a cavallo del millennio. Nel profluvio di parole e immagini di questi giorni limitiamoci all’essenziale, a una riflessione.

Silvio Berlusconi è stato un personaggio divisivo come pochi, e questo già di per sé è un bene, al tempo e in un paese dove l’inclusivismo d’accatto tiene banco. Con lui sapevi sempre da che parte stare, dov’era lui stava l’altro, il nemico. Così, potevi farti fregare meglio dal sedicente amico alle spalle. Su questa inimicitudine – si passi il termine – di cui il personaggio personalmente soffriva assai, essendo per sua natura amicale come pochi, portato a voler essere amato da tutti e a non darsi pace se qualcuno, inspiegabilmente, non lo poteva soffrire, molti, magari beneficiati della prim’ora, han campato di rendita, ma di questo diremo poi.

Alla sua dipartita questa divisione netta tra l’unto del Signore e la creatura del male è emersa con forza, velata appena dal cerimoniale di piaggeria che si concede ai trapassati e affossata nel discutibile lutto nazionale settimanale. Sic transit. Il povero cronista s’è trovato a dover uscire da un convegno dove ogni presente in sala si scalmanava ad applaudire lo scomparso e al tempo stesso ad aborrire gli strali con cui residuali cosacchi da salotto dileggiavano lo stesso post mortem, quasi fosse un novello dittatore d’appendere a piazza Duomo dove oggi si celebra la dipartita. Ma tant’è, ognuno è padrone del sen da sé fuggito, parafrasando Metastasio, oltreché di ciò che cela in pancia.

Sui tanti limiti, umani e politici del personaggio, tant’è andato il Cavaliere al lardo che meglio sarebbe tacere. Due, forse, primeggiano su tutti. L’aver bambocciato il paese con le sue televisioni mercenarie – che in queste ore mandano giustamente in loop il suo faccione, essendo roba sua e degli eredi – per lustri, al punto da forgiare le nuove generazioni d’italioti e una nuova scienza politica tutta italica, degna erede del fascismo: la telecrazia. Messa perfettamente a frutto dai quadri Fininvest che hanno dato vita e nerbo al suo capolavoro politico: Forza Italia. Nessuno, prima e fuori dal Belpaese, c’era riuscito così bene. Che poi questa, nella fattispecie dell’Italia delle libertà, si squagli come neve al sole ora che il padrone è andato, è altra cosa.

Altro limite, venale, è l’aver anteposto al bene pubblico i suoi interessi privati, fiancandosi a forze oscure e pure in odor di mafia. Ma su questo mal comune non si vede chi possa scagliare la sua pietra. Come sull’altro, l’aver inzeppato gli scranni del potere di guitti e ballerine – per usare un eufemismo che non offenda, in tempi di sfrenato genderismo – olgettine et similia, ma neanche qui il Cavaliere s’è mostrato originale. Forse solo un pelino più sfacciato, greve. Ma il climax della Seconda repubblica, pasciuta a Serenegrandi e Alvarivitali, era quello.

E veniamo ai meriti, men visibili ma ben presenti. Il primo è che, quando i suoi interessi privati collidevano con quelli del paese, il Cavaliere ha tentato la carta dell’autonomia politica ed energetica dai dettami di Washington, cercando l’alleanza coi baubau della politica internazionale, Putin e Gheddafi, suoi buoni amici. Non è bastato l’averli buttati a mare ­– il secondo più del primo, che difatti è stato tra i primi a dolersi della scomparsa – mostrando così i suoi veri limiti politici, per salvarsi dalla vendetta made in Usa. L’altro è l’aver tentato – più Tremonti che lui, in verità – di salvaguardare la residuale funzione di controllo della moneta da parte di Bankitalia opponendosi alla scellerata politica di privatizzazione di questa e di gestione del debito. Non è bastato non esservi riuscito per salvarsi dalla vendetta degli europeisti sotto comando Usa, che l’hanno sgambettato mettendo al suo posto il fido tecnoburocrate Monti, ponendo così fine al suo regno trentennale a poche settimane dall’ipermediatico crollo delle torri dell’11 settembre. Da allora il Cavaliere è sopravvissuto a sé stesso e ai suoi guai giudiziari e di salute, fino all’altroieri.

Ma il merito maggiore di Sivio è forse un altro, e anche per questo lo rimpiangeremo quando all’orizzonte politico si staglierà l’ombra di nani al pari dei quali anche lui sarà considerato un gigante. Berlusconi ha ritardato la scomparsa della sinistra italiana di un buon trentennio, almanaccando di come i comunisti – merce rara fin dai tempi del povero Gramsci e totalmente asserviti a ogni forma di connubio col potere dai tempi di Togliatti – fossero lilì per abbeverarsi alle fontane dell’urbe, e meno male che Silvio c’era. Ha dato, insomma, una ragione di vita a chi senza nemici non ha ragion di vita, trascinandosi come il famoso cavaliere di Calvino, ancorché morti. Di questo la sedicente sinistra nostrana ha campato decenni, facendone la sua residuale fortuna, e di ciò gli sia dato atto. Ciao Papi banana, anche per questo ti siamo orfani, e debitori. Ci mancherai.


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