Il presidente iraniano Raisi si schianta al confine con l’Azerbaijan. Incidente o attentato? I fatti
È proprio vero che l’appetito vien mangiando. Piglia Bibi. Non gli bastava l’aver spianato Gaza, proseguendo imperterrito il genocidio fino ai più reconditi angoli di Rafah. Non gli bastava l’aver bombardato l’Iran in risposta al farlocco attacco missilistico iraniano nella principale base israeliana del Negev. No, già che c’era ha pure decapitato il regime degli ayatollah, buttando giù l’elicottero con cui il presidente dell’Iran, Ebrahim Raisi, tornava dall’Azerbaijan dov’era andato a inaugurare una diga e stringere accordi e la mano al suo omologo azero, Ilham Aliyev. Il presidente rieletto a febbraio al quarto mandato con un democraticissimo 94% dei voti che, detto en passant, porta un po’ jella, visto che al premier slovacco Robert Fico hanno sparato dopo una medesima visita ma, buon per lui, se l’è cavata. Avanti il terzo incomodo, per Tel Aviv e Washington.
Un momento, fermi tutti, che c’entra quel cattivone di Bibi e i soliti pastrocchi della Casa Bianca? Nella regione montuosa dov’è caduto l’aereo c’era un nebbione che manco a Milano negli anni ‘50, e l’elicottero Bell 212 – americano e invero un po’ vecchiotto – s’è guastato per mancanza di ricambi dovuti all’embargo. Eppoi, a dirla tutta, Raisi non era certo un falco. Anzi, pare che volesse fare le scarpe alla guida suprema dell’Iran, quell’Ali Khamenei che regge le sorti del paese dall’alto dei suoi 85 anni e ha già indicato nel rampollo Mojtaba a succedergli alla guida della rivoluzione e alla testa dei suoi guardiani, i Pasdaran. Ergo, a fare fuori il presidente è stato un “guasto” interno al regime. Che gineprajo l’Iran. E che guazzabuglio l’Oriente e la guerra infinita dell’Occidente, per il povero cronista che fatica a raccapezzarcisi e manco può affidarsi ai servigi d’una chat qualesia. E allora vediamo di capirci qualcosa, stiamo ai fatti.
Primo fatto. Nell’area, remota e montuosa, a ridosso del confine azero la nebbia c’era, eccome. Tutti hanno visto le immagini dei soccorsi dopo lo schianto del relitto, individuato grazie a un drone turco. La nebbia s’intravede pure dalle ultime immagini del presidente, assorto e malinconico, che guarda fuori dai finestrini dell’elicottero, a pochi minuti dallo schianto. Peccato che dal satellite meteorologico di zona le registrazioni dei dati di volo siano state cancellate, come la nebbia.
Secondo fatto. Poco dopo l’incidente a Raisi e al suo entourage, a Baku atterrava un C17 statunitense proveniente dalla Giordania, equipaggiato per la guerra elettronica. E pure meteorologica, dicono i complottisti che ormai allignano persino sui media mainstream. Quelli veri, invece, segnalano dall’accout Israel war room su X la sagoma d’un elicotterino già alle 7.58 del 19 maggio, quando nessuno ancora sapeva del botto.
Terzo fatto. L’Azerbaijan è il principale fornitore di petrolio a Israele, e a Baku gli agenti dei servizi con la stella di Davide, come nordamericani, sono di casa. Tel Aviv può colpire ovunque e impunemente i suoi nemici, fuori e dentro l’Iran, e lo ha già dimostrato innumerevoli volte.
Quarto fatto. Il defunto presidente Raisi non era un guerrafondajo. Anche a non voler dar credito ai maneggi che lo volevano in lizza per la successione o nella ricomposizione del conflitto con l’arcinemico grazie ai buoni uffici dell’Oman, la sua morte non avvantaggia i moderati nel paese, né tantomeno chi spera in una svolta “democratica” del regime. Il potere vero ce l’ha la guida suprema, anzi il figlio dell’Ayatollah, non certo il fu presidente Raisi o il suo vice Mokhber, e neppure il Consiglio dei dodici guardiani supremi della rivoluzione che dovrà ratificare, entro poche settimane, la nomina del nuovo presidente, indipendentemente da un eventuale voto popolare. Insomma, buttare un altro cerino acceso nella polveriera è un bel modo per far saltare tutto e prima di tutto ogni residuale piano di pace, soprattutto per chi per reggersi a galla deve massacrare ogni oppositore, nemico del proprio Dio.
Buon ultimo, un quinto fatto. Desta un certo finto scalpore e falso clamore la denuncia della corte penale internazionale dell’Aja per crimini di guerra, con tanto di richiesta d’arresto, per Netanyahu e Gallant, ministro della difesa israeliano, come pure per i sopravvissuti leader di Hamas, Yahya Siwar e un altro paio di esponenti. Neanche a dirlo, chi plaudiva alla giustizia per le omologhe richieste verso Putin o Milosevic buonanima, strepita e urla contro l’offesa inaccettabile e l’accusa del tribunale che, peraltro, Usa e Israele non riconoscono. Lettera morta, come il riconoscimento della Palestina che non c’è da parte di 142 stati dell’Onu su 193. Ultimi ad aggiungersi al listone Spagna, Irlanda e Norvegia. L’Italia, con Tajani, balbetta come sempre. Urgono le elezioni burletta del Parlamento Ue che dovrà votare la guerra permanente, l’incendio può attendere.
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