Le parole sono pietre

Neanche il tempo d’aprire il terzo fronte di guerra made in Usa e se ne spalanca un quarto. Mentre sulle piane tra il Tigri e l’Eufrate sventolano, lasche e flosce, le star & strip delle libertà e i falchi del Pentagono svolazzano nel pantano afghano, le prime pagine dei tabloid nostrani e d’altrove staccano la presa dal sangue iraniano sparso sulle strade iraniane dai malvagi mullah e allumano il quadrante nord del Corno d’Africa.

Per  raccontare della nuova frontiera del terrore passante nel riunificato Yemen, dove la battaglia contro le forze del male sarebbe già combattuta da mesi, previa infiltrazione dei sempiterni esperti dell’Intelligence e appoggio alle truppe di Sana’a incaricate di espugnare le roccaforti alqaediste. E mentre il fantasma di Osama langue tra valli e monti del primo fronte, pronto a essere evocato alla bisogna, le nuove che rimbalzano dall’unica repubblica della penisola araba disvelano i due corni della entry strategy di George Obama, o meglio dei consigliori dello studio ovale, visto che il muro contro muro non fa più tendenza, a Washington.

 Primo: cantare l’azzeramento morale del nemico, mostrarne il volto bruto e truce, per renderlo più malleabile e convincere della giusta causa, per quel che serve, riottosi e confusi nel blog dell’opinione pubblica globale. Ché la democrazia ha i suoi miti e chiede i suoi riti. Secondo: agire con dosi omeopatiche e, per quanto si può, mirate sul corpo del malato. Un commando qui, un istruttore lì, e il grosso dello sporco lo raschino i locali e i mercenari (ops, contractor) prezzolati quando non bastano le bombe intelligenti né quelle che intelligenti non sono. Ma i cattivi sono come nei film western, come gli orsetti di pezza alla fiera: più li accoppi e più saltano su. Così, se il panettone natalizio s’è infarcito delle repressioni in Iran, il sacco della Befana porta dall’ennesimo fronte i venti di questa guerra infinita, per dirla come Giulietto Chiesa.

 Tra tante, una chicca, estrapolata non dalla tanta carta da culo servita come informazione, ma da una testata che pure spicca nel mare nostrum di carta straccia. “La battaglia degli italiani”, titola Repubblica del 3 gennaio un servizio di Giampaolo Cadalanu dal secondo fronte di guerra, dove si narra dell’italica vittoria contro gli insurgent, al fianco degli immancabili parà americani, dopo tre giorni di fuoco nel castello (alias base avanzata) di Bala Murghab. Delle due l’una: o preso dalla foga di cantare le gesta dei compatrioti sardi della brigata Sassari il nostro ha scordato di tradurre il termine passatogli dal passacarte Marco Mele dalle veline del comando Usa, o è tra i partigiani di dette veline che caldeggiano di evitare l’uso di termini crudi o inopportuni che mal si addicono a un esercito in missione di pace qual è il nostro: tipo resistenti, guerriglieri o, sia mai, patrioti. Meglio un anodino insorgenti, meglio ancora se col tocco esotico del forestierismo anglofono che tanto piace e pacifica, lingua e coscienza. Insurgent d’Afghania versus pax americana, oh yeah.


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