Il Garibaldi tradito Belle lettere

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Sfugge all’antivulgata risorgimentale filoborbonica ma pecca d’insufficienza di prove documentarie il saggio di Alfio Caruso sulla fine del regno delle Due Sicilie che riprende le memorie di don Buttà

È un bel privilegio quello di frequentare la storia e saperla raccontare. Quello d’unire alla conoscenza dei fatti capacità narrativa e facilità di scrittura, senza che la materia, di per sé pesante, risulti indigesta. Sarà per questo che dalle nostre parti, a differenza di quel che accade nel mondo anglosassone, storici di mestiere che non facciano calare la palpebra alla terza riga o russare l’uditorio appena aprono bocca ce ne siano pochi. Come, di contro, giornalisti capaci d’una narrazione non di maniera, abili a calarsi nel vissuto dei tempi con la conoscenza verosimile (non veritiera) dei fatti. Paolo Monelli, Indro Montanelli, Arrigo Petacco e Claudio Fracassi, per fare nomi tra loro diversi, erano e sono di questa scuola. Alla schiera dei pochi s’unisce Alfio Caruso. Catanese, cinquant’anni, Caruso da un pezzo s’è messo a scandagliare la storia patria, mafia & misteri, col piglio del romanziere qual è e dello storico di vaglia, con l’occhio del siciliano che la vede lunga. Al tema del Risorgimento ha già dedicato la storia degli altri Mille, quelli del papa re. Buon ultimo, il suo Garibaldi, corruzione e tradimento, edito da Neri Pozza.

Oltre trecento pagine che possono leggersi d’un fiato, da penna fine qual è il catanese. Una piccola summa di come andarono i fatti in una vicenda più nota che conosciuta, per dirla come il buon Manzoni, che una bibliografia sterminata non è ancora riuscita a sciogliere nei suoi nodi più controversi. La corruzione e il tradimento che, accompagnata alle indelebili gesta eroiche dei Mille non più Mille, come sottolinea Caruso, portò al crollo del Regno delle Due Sicilie, come recita il sottotitolo del saggio. Una pubblicazione, quindi, che s’incanala nel filone delle origini, volta a ricomporre i tasselli mancanti di una storia patria che ancora trasuda sangue. Di un’unità mancata e messa in discussione in toto, a centosessant’anni dall’unità dichiarata. Caruso, va detto subito, si destreggia e sfugge al trappolone dell’antivulgata risorgimentale, del bel regno delle Due Sicilie scrafazzato dai malvagi piemontesi, dai maneggi del perfido Cavour più che dalle eroiche camicie rosse di Garibaldi. Riesce a mantenersi sul filo, Caruso, ma è un filo che non porta da nessuna parte. E qui veniamo alle dolenti note del saggio.

Principiamo, per dirla alla siciliana, dall’inizio. Dalla copertina, e dal titolo. Sa di menata presentare l’impresa dei Mille con l’immagine tratta dalla battaglia di Mentana, assai posteriore, dove i garibaldini vennero presi a schioppettate dagli chassepot francesi. Sa di grossa menata voler accostare al nome di Garibaldi due parole, corruzione e tradimento, che garantisce il botto mediatico ma col suo nome c’entrano nulla. Lasciando balenare di voler così eviscerare, finalmente e una volta per tutte, le malefatte di Torino e la corruttela del regno di Napoli, eppoi non dare conto d’un documento, d’una prova che sia una. Saltando a pié pari pure l’affondamento del vapore su cui Ippolito Nievo aveva raccolta – ahilui – ogni scartoffia di quella spedizione, compresi certi conti che, con tutta probabilità, portarono all’affondamento del piroscafo Ercole da parte degli agenti di Cavour, a poche settimane dalla proclamazione del regno d’Italia e a pochi mesi dalla morte del gran conte. Uno dei primi, indicibili misteri italici. Così, rifarsi solo allo scartafaccio di padre Giuseppe Buttà – cappellano filoborbonico fino al midollo – poco noto ma non certo ignoto non è roba che porti lontano nel campo della ricerca, giusto delle supposizioni e delle rievocazioni. Eccoli, i limiti di un’opera che pure si legge d’un fiato. Salvo poi metterlo in un canto, sulla pila dell’altre, a far peso.

Resta l’affresco storico d’un tempo ormai ridotto a cenere, eroi e macchiette che disfecero un regno, quello di Franceschiello, troppo debole e marcio per reggere botta agli appetiti del cugino Vittorio, alle manovre del gran conte e alle capacità militari di Garibaldi. Che si misurarono davvero al Volturno, a cose quasi fatte ma non ancora decise, più che a Calatafimi, all’inizio di tutto. Ché l’unico tradito, alla fine, restò lui, disinteressato e massone, tornato a casa con lardo, lenticchie e un pugno di mosche, e qualche milione d’italiani in farsi. Resta una storia di lacrime e sangue, tutta da scrivere ancorché (in)compiuta.


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