Partita a scacchi con l’Apocalisse La guerra infinita

erdogan

A raccontarla meglio sono le vignette. Quella di Patrick Chappatte, illustratore francese di base a Genova, dove un tank turco infila il cannone sotto la sabbia, a suggere petrolio, mentre Kobane brucia. O l’altra dove un Erdogan mascherato da ladro promette aiuti ai siriani mentre fa bottino dei loro beni. L’occasione per l’ultima messa in berlina del premier turco è data dalla documentata denuncia a Strasburgo e all’Aja fatta da Farés el-Chehabi, presidente della camera di commercio siriana, sulle razzie nell’ex polo industriale di Aleppo, smantellato e portato oltre confine turco dall’Is grazie ai padroni di casa.

Così, dopo il petrolio si scopre che anche quel che resta del disastrato patrimonio industriale siriano prende pezzo a pezzo la via di Ankara per essere svenduto con la connivenza dei famigli del premier turco e l’apporto delle mafie locali, ma l’Ue resta sorda e muta. Anzi, dopo i tre miliardi di euro graziosamente elargiti alla Turchia perché spranghi ai profughi siriani le porte d’Europa, la Bers (Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo) ha acquistato il 10% della Borsa di Istanbul, avviando un vasto programma di aiuti all’economia di regime.

Mentre l’Europa che conta punta sempre più sul nuovo Solimano, alla faccia di denunce e vignette e della ventilata lotta al Califfato che ha nella Turchia uno degli sponsor più inattaccabili, la Siria resta teatro della partita a scacchi tra Ankara e Mosca. Dopo l’abbattimento del Sukhoi russo, Erdogan ha ottenuto quella no-fly zone richiesta da anni, ma nel nord della Siria non volano più i suoi aerei, e neppure quelli della coalizione anti Isis a guida occidentale, dopo lo schieramento dei missili S-400 russi. E mentre continuano le schermaglie tra i due paesi (nell’Egeo un peschereccio turco è stato allontanato a cannonate), la Russia sperimenta nuove armi, dai missili balistici lanciati dai sottomarini nel Mar Caspio ai bombardieri Su-34. Da parte sua, Ankara muove i corazzati da Ninive a Mosul – con le proteste del governo iracheno – rilanciando in Kurdistan la partita in stallo nel Turkmenistan. Ma il tempo è dalla sua. L’impegno russo, rivelano al Rusi, un pensatoio dell’Intelligence britannica, stimato da Mosca in poco più di un miliardo di dollari per il 2016, sfora già i 3 miliardi. Un salasso che Putin non può permettersi, specie se l’Europa continuerà a mettersi di traverso. Mettendo testa e cannoni sotto la sabbia, come nella vignetta di Chappatte.

O meglio, mettendoli dalla parte sbagliata. Mentre i missili di Tel Aviv schiantavano a Damasco la vita di Samir Quntar (l’infame terrorista druso, come titolano i media israeliani, indicato tra i capintesta del terrorismo internazionale dal Dipartimento di stato Usa solo due mesi fa), la Nato autorizzava l’invio di navi e aerei dell’alleanza per proteggere dalle minacce russe la Turchia, neopaladina d’Occidente in terra di Siria. I media di casa nostra, va da sé, piuttosto che approfondire i retroscena dell’ennesimo raid “chirurgico” israeliano o fare luce sull’ingresso ufficiale del braccio armato dell’Ue nella guerra in Siria, si baloccano sulle prospettive di pace emerse al consiglio di sicurezza dell’Onu, con un netto capovolgimento narrativo. O sugli orrori del regime di Assad, confezionati a bella posta dalle organizzazioni umanitarie a senso unico stipendiate da governi & servizi amanti del diritto internazionale. Vedi alla voce Osservatorio siriano per i diritti umani o Human rights watch del sunnita Rami Abdel Rahman, a libro paga del Mi6, i servizi inglesi, che dalla sua casa di Coventry le spara grosse per tutti, fuorché per tv e giornali che ne riprendono pedissequamente le montature.

Facezie, davanti al miraggio di un Sunnistan a guida Is (Us) da cui avere petrolio ai saldi, col placet delle petromonarchie del Golfo e l’asse militare israelo-turco (che formalmente milita sui lati opposti della barricata) a fare il lavoro sporchissimo sul terreno – quello sporco lo fanno mercenari e miliziani di varie tendenze – con Ue e Usa pronti a dar loro manforte contro i propri interessi. In questo stravolgimento della narrazione, Mosca è il controcanto che fa la voce grossa, minacciando finanche l’uso dell’arma nucleare per far capire a tutti che sulla partita siriana andrà fino in fondo, ben sapendo che non potrà farlo, mentre Ankara se ne strafrega delle minacce russe e delle prove provate nel sostenere l’Is-Us, spalleggiata dall’Occidente unito solo nel combattere Putin. Poche volte si sono viste, nella storia, due coalizioni combattere formalmente dalla stessa parte ma l’una contro l’altra armate e intente a darsi battaglia sullo stesso terreno, in nome di un comune nemico. Un’Apocalisse che conta assai più di quattro cavalieri.

Ora, i cultori dell’Apocalisse ricorderanno come nella versione islamica l’Armageddon cristiano – luogo della battaglia finale tra bene e male – sia collocato a Dabiq, una cittadina alle proprio alle porte della deindustrializzata Aleppo. E Dabiq è, non a caso, la testata della patinatissima rivista dell’Is (Us) che vanta le glorie del Califfato e le sue conquiste. Quella, tanto per capirci, che mise in copertina la bandiera nera della Jihad allocata in piazza San Pietro. Se lo scontro finale è cominciato, nessuno in Europa pare essersene accorto. Vignettisti a parte.


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