Dicerie dell’untore Le parole sono pietre

Nell’ultima fase della sua vita, uno dei tormentoni preferiti da mio padre era: siamo nati per soffrire e ci siamo riusciti. Coerente al lascito paterno, ho cominciato l’anno meglio di quanto abbia finito il precedente. Se con l’infarto l’avevo scampata, ci ho riprovato col coronavirus. E, per non farmi mancare niente, qualche complicazione polmonare e ricovero d’urgenza. Sempre allo stesso ospedale, il Vannini, dove persino le infermiere scafandrate sono simpatiche e il sottoscritto un cliente fidelizzato, uno del giro. Ho ritrovato pure il padre confessore polacco, ormai un amico.

Tutto inizia con certi dolorini scamuffi, poi il primo tampone, quello utile come un calcio alle palle. Ché dopo averlo fatto alla modica cifra di venti euro ti dicono che sei positivo ma non conta, devi farti l’altro, quello buono. Allora via al drive test mattutino, nel vecchio impianto di carni sulla Palmiro Togliatti. Un serpentone di macchine dall’alba, a sinistra quelli che vanno a farsi tamponare, a destra quelli che smerciano carnaglia, dopo il tramonto apre la macelleria transgender. Già in questa terra di nessuno, tra addetti in palandrana che gironzolano tra le macchine in coda a distribuire moduli rigorosamente cartacei da compilare a penna – dopo una marea di registrazioni e controregistrazioni online per avere la visita – ti rendi conto che entri in un mondo altro. Lunare. Dove i tempi si storcono, dilatano, e tu sei tra color che stan sospesi, come diceva il poeta.

Poi, prima ancora d’avere il responso, l’illuminazione della verità, il ricovero. I valori sballano, siamo in sofferenza polmonare, l’ambulanza col cordone sanitario. L’operatore che ti guarda e dice: macché, i suoi valori sono sbagliati, se non lo fossero io starei parlando con un fantasma. Benedette macchinette che ti trasformano in ectoplasma anzitempo. Nel calderone del pronto soccorso Covid, tra infornate di poveri vecchi dall’aria smarrita, incapaci di digitare al cellulare, abbandonati a sé stessi, imbozzolati nelle coperte di carta termica come tanti migranti. Tante caramellone giallo oro ripiene di sofferenza. Una torma d’addetti in tenuta lunare a darsi d’attorno, ognuno con la sua sensibilità: chi bestemmia e chi prega, e chi semplicemente fa il suo, a testabassa. Poi la dottoressa giovane e carina che nel cuore della notte ti spiega come e perché non sei più un fantasma. Poi l’anziano primario, un ometto che potrebbe essere il cugino buono di Babbo Natale e deve aver superato da due lustri l’età pensionabile, che con tutta la gentilezza del mondo ti spiega come e perché fai sempre a tempo a tornare fantasma.

Inizia una settimana di passione, come se finora avessimo scherzato. Almeno qui puoi stare senza museruola, in libertà. Pure l’ossigeno ti levano, ché stai una bellezza e andiamo a risparmio. Ché questo s’è capito, del virus: è su misura, a ognuno come gli pare. C’è chi s’è fatto dieci giorni di febbre da cavallo e s’è presa una polmonite coi fiocchi, chi non accusa un dolorino. C’è chi ci lascia la pelle e chi non becca manco un raffreddore. Tutti sotto botta, però. Fortuna viene il vaccino a livellare tutto, chi ha avuto e dato, in una sorta di pandemismo egualitario.

Intanto il pensiero va. Non al fantasma in te – che francamente, sor marchese, quando è l’ora… – ma a tutti quelli che hai potuto mettere nella peste senza volerlo, tantomeno saperlo. I contagiati in pectore. Per loro soffri, non per te, per i tuoi cari soprattutto. Per la santa donna che si danna a mandare avanti la baracca da sola, per i figli al 41bis. E ti viene da ridere quando ti dicono ma dove, ma come. Ecché volete. Solo nell’ultimo mese sarò uscito un’infinità di volte: 4-5. A farmi una birretta in piazza, persino. Pure di notte. Niente di più facile che il virus m’abbia seguito, poi si sia infilato sotto al letto per colpire nel bujo e nel sonno, come gli si addice. Ma queste sono dicerie d’untore, indegne a paragone di quelle del povero Bufalino. Stiamo ai fatti, e godiamoci quel che c’è. Stasera, lesso e coronavirus.

 

Sopra: il drive covid al centro carni della Palmiro Togliatti


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