Tutti a casa. E restateci Belpaese

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A rivederlo oggi, il filmone d’Albertone mette ancora più tristezza. Era il settembre del ‘43, uno dei punti più bassi nella storia d’Italia, la morte della patria come qualcuno ha scritto, sperando nella sua (mancata) rinascita. Già oggi a dire patria si è in odore di sovranismo, quindi scriviamolo piano, a matita, ma tant’è. Andiamo al sodo della battaglia che s’appressa, per dirla come il buon Bianciardi. Il bel film di Comencini del ‘60 è robetta rispetto alla tragicommedia in atto, al Tutti a casa dei nostri dì. La perimetrazione delle piazze – questo termine partorito dalla fervida mente d’un qualche geocrate che nulla ha da invidiare alla neolingua d’accatto – il coprifuoco (a quando una bella parolina anglofona che ne mascheri la crudezza?) by night, il redivivo modulino per portare il cane a pisciare dopo la mezzanotte sono ulteriori punturine di spillo sulla scorza dura del covidiota, non l’intaccano.

Sotto la minaccia del confinamento sociale totale le rane bollite vagolano a malapena di giorno, giusto per fare quel po’ di spesa (finché ci sono soldi e lavoro) e rigorosamente mascherate per non essere intubate, come vuole la vulgata mediatica, figurarsi di notte. Mica serviva l’ennesimo scempio dell’intelligenza – il Covid, è arcinoto, colpisce meglio di notte, come un brigante di strada – per costringere tutti a starsene a casa (per chi ce l’ha). Sprofondati sul divano a farsi martirizzare dal terrorismo mediatico. Giorno verrà che apriremo la porta solo a gente in scafandro (in attesa del drone) che ci porterà l’essenziale, pagato online. Manco più apriremo al vicino che chiede il sale. Già amici e famigli restano fuori dalla porta, a miagolare come i gatti. Sarà, questo, un giorno perfetto. La quadratura del cerchio del nuovo contratto sociale. Già oggi milioni di covidioti, recita l’immancabile sondaggio, rifiutano scambi di contante, guardano con sospetto negozi e mercati, in odor di virus. Siamai. Quando avremo richiuso tutto e sprangato il mondo fuori, quando ci saremo rinchiusi per bene, tutti a casa al riparo dal morbo, allora sì che potremo dirci in salvo, aspettando l’antivirale che ci riporti in vita. Ma forse neanche più servirà, agli zombi non serve la luce. Al massimo una qualche forma di sussistenza.

Diceva Gunther Anders, filosofo che varrebbe la pena rileggere, in tempi già sospetti: «Noi contemporanei siamo stati a tal punto privati della libertà da non avere più nemmeno bisogno di ricevere ordini. Il nostro è autoasservimento nei confronti di un sistema che ci ha reso schiavi con l’illusione della libertà». L’altra sera, girando in una Roma già in odore di blocco, desertificata e oscurata, transennata e trista come neanche nei giorni d’oro del confinamento sociale, ho notato due ragazzi seduti uno fianco all’altra su una panchina, in una piazza deserta tranne duetre barboni inciuchiti. Mascherina ben calcata sul naso e sguardo fisso sul cellulare, distanziati. Parevano due fidanzatini distratti, poi ho guardato meglio e ho visto due cittadini modello, prodromo della socialità – famiglia? – che verrà.

L’unica buona nuova è che in tempi come questi pure spiritelli e fattucchiere se la passano male, Azzoline a parte, e quest’anno scampiamo la menata d’Halloween, assieme al Natale coi suoi mercatini.


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