Vita agrodolce di Vezzòli (e nostra) Scrissi d'arte

Estetica ed etica di Vita Dulcis al Palexpo, tra Bennato e Dostoevskij

Ci sono sguardi d’amore, d’odio. Occhiate d’ogni tipo e maniera. Occhi che aprono mondi, altri che chiudono spazi. Quello orrorifico che campeggia sulla locandina di Vita dulcis è un’occhiataccia d’orrore e stupore a un tempo. Paradigmatica del sottotitolo della mostra: paura e desiderio nell’impero romano, e al tempo stesso icona d’un artista che s’è fatto verbo del mondo nuovo fin dai suoi albori, e oggi che sul mundus novus splende il sole del presente ne coglie a piene mani i frutti. Francesco Vezzòli è, nel suo campo e a suo modo, l’auriga del sol invictus splendente sul mondo novissimo. Novello Apollo, scorrazza sul carro del sole lanciando raggi sull’urbe e sull’orbi. Un artista di chiara fama, tra i più noti del panorama internazionale oltre che del Belpaese. In lui s’è incarnato il genio italico che piace alle folle globali. I suoi vezzi raccontano al meglio l’oggi, e tanto basta a neo Candidi ed epigoni di Lorenzo De’ Medici: a chi se ne pasce credendo che l’attuale sia il migliore dei mondi possibili e a chi ne gode, ché del doman non v’è contezza.

Ma proseguiamo per tappe, cercando di carpire il senso dell’arte di Vezzòli esposta al Palaexpo. Partiamo dall’estetica, dal contenitore per giungere all’etica, al contenuto in mostra, passando per il mezzo. Il rigore estetico di Vita dulcis è ineccepibile. Nelle sette sale raccordate dalla rotonda centrale si innestano classicità e visionarietà, sotto il segno della Roma imperiale. Nell’allestimento teatrale, immersivo, di Filippo Bisagni e grazie alle luci di Luca Bigazzi, marmi antichi e luminescenze coève dialogano secondando l’estro dell’artista bresciano. Un racconto per tappe affronta temi come fama, potere, guerra e sesso, fede e morte. In ogni sala, opere provenienti dal museo nazionale romano sono rielaborate nel linguaggio di Vezzòli che nulla esclude: dai ricami alle performance, dal trucco al parrucco, conchiuso dai video proiettati in loop nelle varie sale, da Cabiria sceneggiato da D’Annunzio al Satyricon di Fellini, al trailer del rifacimento di Caligola di Tinto Brass e Gore Vidal, presentato alla Biennale del 2005, che ha consacrato Vezzòli nell’empireo delle star grazie alle starlette inzeppate nello spot vietato ai minori. Ora passiamo al mezzo.

Il modus operandi di Vezzòli ricorda, qui più che altrove, ‘a pazziella mano ‘e criature, come rimava Bennato ai tempi d’or in Cant’a appress’a nuje. Già arduo sarebbe vedere finti marmi e copie in gesso colorate al modo antico, ma qui abbiamo opere vere del II o IV secolo avanti Cristo bistrate di colori – solubili come quelli che si danno in mano ai bambini, si spera – o sovrincollate e guai se il povero cronista osa accostarsi al basamento di pelliccetto per capire se ciò che guarda è realtà o finzione, viene subito richiamato all’ordine da solerti guardiasala. Fuor di pazzia, sarebbe da chiedersi se è lecito, se non si è violata alcuna norma di banale legalità, trasporre reperti dal museo nazionale romano alle sale dell’expo per essere imbrattati ad arte dall’artista di grido. Sarebbe utile al riguardo un’interpellanza parlamentare, solo per sollevare legioni di difensori della libertà dell’arte e della fuffa d’autore. Quanto al resto, ai laccetti sadomaso sui peni e alle vulve ex voto sottoteca, lasciamo correre per carità di minori, minorati e morigerati. E veniamo, buon ultima, all’etica.

Se l’artista è colui che sa raccontare e interpretare meglio d’altri il proprio tempo, Vezzòli è un grande artista. Tra i nostri maggiori. Bene ha fatto quindi il presidente del Palaexpo, Marco Delogu, a rivendicare la centralità di questa mostra nel nuovo corso espositivo dell’azienda, nella curatela proposta da Stéphane Verger e dallo stesso artista. L’apoteosi dell’amore omosessuale, qui rimasticato nella trista storia d’Adriano e d’Antinoo, raggiunge nelle opere esposte vette che si calano alla perfezione in tempi di gender fluid e mosciume narcisistico, all’insegna del pensiero unico funzionale all’ordine mercantile globale, spacciato per gioioso e irriverente progresso. Ma chiunque ami l’arte, per non dire il buon senso, può davvero contentarsi di tanta pochezza? Di nani che, appollaiati sulle spalle dei giganti, vi pisciano sopra? Quest’arte, marcia come il mondo che rappresenta, è morta come l’Occidente che se ne nutre, anche se sfavilla di luci e colori. Morta perché nulla mostra fuor dal suo opaco nonsenso. Non un barlume di speranza o bellezza. Non talento oltre alle fondamentali promozione del sé e ciambellaneria di corte. Men che meno spirito sovvertitore, solo un ghigno d’orrore. Horror vacui, non metafora di dolcevita.

Si è liberi di gridare al reato di lesa maestà, genuflettersi davanti al carrozzone Lgtb plus e chi più ne ha più ne mette, sia detto senza irriverente scostumatezza, persino di continuare a guardare il dito anziché la luna caduta nel pozzo. Ma sovviene il monito di Dostoevskij: “Ci sono nella vita degli uomini dei momenti storici in cui una scelleratezza evidente, sfacciata, volgarissima può venir considerata nient’altro che grandezza d’animo, nobile coraggio dell’umanità che si libera dalle catene”. Troppo? Ve lo concedo. Eppoi lo scrittore russo è ciarpame reazionario, persino sospetto di simpatie putiniane. Limitiamoci allora al detto d’un pacifico fraticello nostrano, Tommaso da Celano, primo biografo del poverello d’Assisi: ci sono momenti in cui la sottomissione può diventare acquiescenza, il silenzio complicità. Chiunque abbia a cuore le sorti dell’arte, comunque s’intenda, non dovrebbe scordarlo.

galleria fotografica di Manuela Giusto


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