Il codice Vulci, un tuffo tra passato e presente Scrissi d'arte
Il laghetto del Pellicone, presso Vulci

Il laghetto del Pellicone, presso Vulci. Sopra, Luigi Belli, Ex voto, 2017

Siete al mare, e vi fate un tuffo in piscina. Con Il codice Vulci funziona pressappoco così. Ve ne state immersi nel passato e, allo stesso tempo, vi tuffate nella contemporaneità. Dieci artisti, ognuno con una doppia presenza, divisi tra Vulci e Canino, nel viterbese. Venti opere in tutto, in mostra negli spazi quattrocenteschi dell’ex convento di San Francesco, in paese, e nella domus romana del criptoportico, in uno dei siti archeologici più indagati e che più hanno restituito – la tomba François, tanto per dire – dell’antica Etruria. E ancora capace di dare il senso del tempo che fu, d’una civiltà plurimillenaria e per certi versi tuttora oscura.

Anche per chi non abbia troppa dimestichezza coi Tirreni, con la storia di questa monumentale città conquistata dai romani sul finire del II secolo avanti Cristo, può sentirne il mistero. Basta stare sul pianoro dove s’ergevano le possenti mura ridotte a brani stepposi, mirare il magnifico portale a cuspide della porta nord, inutile vanto d’ingegneria militare etrusca. Sentire il soffio del vento sulla spianata, le note della storia che rimandano echi potenti, urla e fruscii.

E lì, calati nel criptoportico a due passi dal simulacro del dio Mitra venerato dai padroni di casa, i conquistatori, dove pare ancora di vedere accovacciati antichi ospiti nei loro riti misterici, ci si aggira tra i manufatti di un’arte coèva che – caso raro – non cozza con l’antico che la racchiude. Sarà che le ceramiche esposte dai dieci artisti, chi più chi meno, mostrano davvero la forza poetica e simbolica che sottendono. O forse la permeabilità del luogo alle suggestioni, alle vibrazioni di onde emotive trascendenti il visibile, chissà.

Fatto sta che già all’ingresso l’uovo pendulo in un cerchio di ferro di Paolo Torella, con la sua doppia simbologia di vita che si conclude e di rinascita, apre a un mondo altro, ancora vibrante nei frammenti ceramici su lamelle della sua seconda opera. Eppoi, viavia, l’alfabeto di segni fantastici inscritti in un ovale di Antonio Grieco, l’Ex voto d’ossa e teschi di Luigi Belli in smalto multicolore su lastra nera, a fondale d’un corridoio, come a dire qua è la fine, ma sia vivace.

L’uovo, ancora, principio generatore che tutto conchiude si ritrova nelle opere di Jasmine Pignatelli e Mirna Manni, nel colpo d’occhio dei vasi di Riccardo Monachesi dov’erano gli orrea. Uova, croci. Ecco, se si vuole, un limite concettuale, una lieve forzatura nel dialogo imbastito da Gianna Besson, curatrice della doppia esposizione, è in questo cercato rapporto tra cultura etrusca e cristiana che alla prima sottrasse la memoria scritta, distruggendo quei libri Sibillini depositari d’ogni antico sapere, vero patrimonio dell’umanità perduto per sempre.

Ma la storia è data in farsesca tragedia, pure se a volte torna in forma di tragica farsa, e a bando d’ogni malinconia basta calcare le pietre dell’aguzzo ponte della Badia svettante sul Fiora, là dove posarono il piede gli Etruschi che l’edificarono. Bagnarsi alle placide acque del laghetto del Pellicone, fondale prediletto di vari film tra cui Non ci resta che piangere, dove Benigni e Troisi iniziarono alla Scopa il genio di Leonardo da Vinci, per riconciliare in un solo tuffo passato e presente. Fino al 10 settembre, info vulci.it/parco-di-vulci.


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