La vurga e il Presidente Belpaese

Un angolo di Sila Greca dove il tempo si è incagliato e la Calabria è un gatto da carezzare

Vurga di Cropalati

Ci sono posti dove il tempo pare essersi incagliato. Non fermato, incagliato proprio. Come all’intarsio di placche tettoniche, il presente s’innesta nel passato, dando luogo a una sintesi sbieca dell’oggi. Qui, come un surice nella rete, il tempo si dibatte quaelà finché sfugge alle maglie e vaga allo scampo in mare aperto, riprendendo il suo normale fluire, oppure s’acquieta, in un sortilegio d’immutabilità che avrebbe fatto la gioia del buon Giorgio Morandi. Terra particolarmente vocata all’incaglio è la Calabria, dove spesso l’odierno scorre parallelo all’eterno, sopravanzandolo di colpo senza alcun mutamento che lasci intravedere un qualche germe di futuro, nessun pertugio di progresso o anche solo, dionescampi, di sviluppo. Tra i posti dove il tempo scorre su binari diversi, altri rispetto al presente, non antichi e neppure moderni, è il Presidente, a Rossano.

Giù per la scalinata della chiesa di Madonna Achiropinta – vale a dire non dipinta da mano umana – in un canto protetto da un muricciolo nell’assolato agosto che sdirupa il paesotto della Sila cosentina, facendo sparire pure i gatti dai vicoli, sta il Presidente. Dove tutto è serrato e assolato, lui è il cono d’ombra, l’oasi di salvezza. Dove tutto è deserto, e giù alla marina riecheggia il presente coi suoi riti e i suoi miti, lì regna, sovrano, il silenzio sull’acciottolìo di pietre già vecchie alla posa. Appena sopravanzato dall’eco d’un neomelodico che fuoriesce dalla porta aperta dello scantinato riattato a punto di sosta e ristoro, vorremmo dire trattoria se la parola non suonasse falsa all’occhio e all’orecchio. Se siete affamati e assetati, accaldati e annoiati, fermatevi nel giardinetto d’erbaggi aromatici e fiori plastici, sedete sulle sediole di plastica spaiate, rette da mattoni sconciati per non farle ruzzolare alla scesa, e lì ascoltate, inspirate. L’odore del giorno e del tempo arenato, l’intarsio mirabile d’antico e d’altro.

Sostate. Mirate il guazzabuglio d’oggetti e scarabocchi al muro che nulla hanno da invidiare alle installazioni en plein air di Fausto Delle Chiaie innanzi all’Ara pacis capitolina. Pure se non avete fame e sete, non siete accaldati e annoiati, né inguaiati col mondo o con voi stessi, lì potete buttarvi sulla spiaggia del tempo arenato, farvi cullare dall’ombra antica d’un diverso presente. Tutto è rigorosamente antimoderno – diremmo naif, se la parola servisse allo scopo e non puzzasse d’intellettualità – e al tempo stesso ultrapresente. Vivo, vivaddio, in un mondo d’ombre come al teatro cinese. Non chiedete menù, al Presidente. Anche se non si mangia neppure male, non è questo che conta. Potete starvene e basta, allocchiti come gatti alla controra, e l’ora sarà ben spesa. Masennò mangiate, senza sforzarvi di capire ciò che avete nel piatto né la lingua che l’accompagna. Non storcete la bocca per il bicchiere o il piatto scompagno. Non abbiate il cattivo gusto d’adombravi al conto non scritto – un’inezia – né tantomeno all’assenza di ricevute o scontrini. Solo ringraziate la sorte, il caso e il piede che fin lì v’ha condotti.

Dopo, spezzato il pane e versato il vino come un novello Cristo redento, pure quella Madonna bizantineggiante pitta da mano inumana vi parrà bella, dolce il giorno con quel che porta. Poi, se avete ancora la forza di muovere qualche passo, staccarvi da questo luogo d’incanto, allora salite le scale di san Leonardo senza occhiare il museo di fruste anticaglie, ché tanto lo troverete chiuso: gustate piuttosto le atmosfere bizantine restìe alla modernità. E se proprio non ne avete pieno il cuore, inerpicatevi sui primi contrafforti della Sila Greca, fino alla badìa della Madonna del Patìre. Tutto è chiuso anche senza alluvioni che spazzano via turisti di passo e abusivi permanenti. Pure l’unico bar è sbarrato, ma che patimento sarebbe altrimenti. In compenso, ammirate quel che resta dei pavimenti a mosaico col bestiario più strambo della cristianità. E respirate a pieni polmoni l’aria ultramontana, lo sguardo al mar di cobalto. Lì la Calabria è, davvero, terra di maremonti oltre che dei due mari. Luogo carezzoso e amorevole come un micio, purché lo si pigli non dalla coda ma dal giusto verso.

E infine, se proprio avete voglia di un tuffo nella mondanità, calate fino ai bagni della Vurga, verso Cropalati. Quattro teli a bloccare il deflusso d’una cascata serpante tra i massi, copertoni sforati a galleggiarvi nell’acqua gelida, verdazzurra come al fondo d’un sogno, e un capanno che manco in una selva cubana. E lì, al son d’un mambo straniante, stappatevi una cedrata condita dalle spanzate e dalle massime di don Agostino. Vero prete ai bagni in tanto paradiso. Vera pace d’un tempo senza tempo, sine culpa e sine menzogna, dove tutto è ciò che appare, e non altro. Ché questo è il tempo incagliato: tutto è ciò che è, altro non serve e non c’è.

Un angolo di Sila Greca dove il tempo si è incagliato e la Calabria è un gatto

di Maurizio Zuccari

Vurga di Cropalati

Ci sono posti dove il tempo pare essersi incagliato. Non fermato, incagliato proprio. Come all’intarsio di placche tettoniche, il presente s’innesta nel passato, dando luogo a una sintesi sbieca dell’oggi. Qui, come un surice nella rete, il tempo si dibatte quaelà finché sfugge alle maglie e vaga allo scampo in mare aperto, riprendendo il suo normale fluire, oppure s’acquieta, in un sortilegio d’immutabilità che avrebbe fatto la gioia del buon Carlo Morandi. Terra particolarmente vocata all’incaglio è la Calabria, dove spesso l’odierno scorre parallelo all’eterno, sopravanzandolo di colpo senza alcun mutamento che lasci intravedere un qualche germe di futuro, nessun pertugio di progresso o anche solo, dionescampi, di sviluppo. Tra i posti dove il tempo scorre su binari diversi, altri rispetto al presente, non antichi e neppure moderni, è il Presidente, a Rossano.

Giù per la scalinata della chiesa di Madonna Achiropinta – vale a dire non dipinta da mano umana – in un canto protetto da un muricciolo nell’assolato agosto che sdirupa il paesotto della Sila cosentina, facendo sparire pure i gatti dai vicoli, sta il Presidente. Dove tutto è serrato e assolato, lui è il cono d’ombra, l’oasi di salvezza. Dove tutto è deserto, e giù alla marina riecheggia il presente coi suoi riti e i suoi miti, lì regna, sovrano, il silenzio sull’acciottolìo di pietre già vecchie alla posa. Appena sopravanzato dall’eco d’un neomelodico che fuoriesce dalla porta aperta dello scantinato riattato a punto di sosta e ristoro, vorremmo dire trattoria se la parola non suonasse falsa all’occhio e all’orecchio. Se siete affamati e assetati, accaldati e annoiati, fermatevi nel giardinetto d’erbaggi aromatici e fiori plastici, sedete sulle sediole di plastica spaiate, rette da mattoni sconciati per non farle ruzzolare alla scesa, e lì ascoltate, inspirate. L’odore del giorno e del tempo arenato, l’intarsio mirabile d’antico e d’altro.

Sostate. Mirate il guazzabuglio d’oggetti e scarabocchi al muro che nulla hanno da invidiare alle installazioni en plein air di Fausto Delle Chiaie innanzi all’Ara pacis capitolina. Pure se non avete fame e sete, non siete accaldati e annoiati, né inguaiati col mondo o con voi stessi, lì potete buttarvi sulla spiaggia del tempo arenato, farvi cullare dall’ombra antica d’un diverso presente. Tutto è rigorosamente antimoderno – diremmo naif, se la parola servisse allo scopo e non puzzasse d’intellettualità – e al tempo stesso ultrapresente. Vivo, vivaddio, in un mondo d’ombre come al teatro cinese. Non chiedete menù, al Presidente. Anche se non si mangia neppure male, non è questo che conta. Potete starvene e basta, allocchiti come gatti alla controra, e l’ora sarà ben spesa. Masennò mangiate, senza sforzarvi di capire ciò che avete nel piatto né la lingua che l’accompagna. Non storcete la bocca per il bicchiere o il piatto scompagno. Non abbiate il cattivo gusto d’adombravi al conto non scritto – un’inezia – né tantomeno all’assenza di ricevute o scontrini. Solo ringraziate la sorte, il caso e il piede che fin lì v’ha condotti.

Dopo, spezzato il pane e versato il vino come un novello Cristo redento, pure quella Madonna bizantineggiante pitta da mano inumana vi parrà bella, dolce il giorno con quel che porta. Poi, se avete ancora la forza di muovere qualche passo, staccarvi da questo luogo d’incanto, allora salite le scale di san Leonardo senza occhiare il museo di fruste anticaglie, ché tanto lo troverete chiuso: gustate piuttosto le atmosfere bizantine restìe alla modernità. E se proprio non ne avete pieno il cuore, inerpicatevi sui primi contrafforti della Sila Greca, fino alla badìa della Madonna del Patìre. Tutto è chiuso anche senza alluvioni che spazzano via turisti di passo e abusivi permanenti. Pure l’unico bar è sbarrato, ma che patimento sarebbe altrimenti. In compenso, ammirate quel che resta dei pavimenti a mosaico col bestiario più strambo della cristianità. E respirate a pieni polmoni l’aria ultramontana, lo sguardo al mar di cobalto. Lì la Calabria è, davvero, terra di maremonti oltre che dei due mari. Luogo carezzoso e amorevole come un micio, purché lo si pigli non dalla coda ma dal giusto verso.

E infine, se proprio avete voglia di un tuffo nella mondanità, calate fino ai bagni della Vurga, verso Cropalati. Quattro teli a bloccare il deflusso d’una cascata serpante tra i massi, copertoni sforati a galleggiarvi nell’acqua gelida, verdazzurra come al fondo d’un sogno, e un capanno che manco in una selva cubana. E lì, al son d’un mambo straniante, stappatevi una cedrata condita dalle spanzate e dalle massime di don Agostino. Vero prete ai bagni in tanto paradiso. Vera pace d’un tempo senza tempo, sine culpa e sine menzogna, dove tutto è ciò che appare, e non altro. Ché questo è il tempo incagliato: tutto è ciò che è, altro non serve e non c’è.


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