Ave Cesare, morituri te salutant, salutavano i gladiatori (morituri) l’imperatore, prima d’iniziare i giochi nell’arena. Questa frase tornava in mente, oggi, vedendo sfilare il mortifero corteo presidenziale di Trump a Roma, la città un dì potente, oggi silente e dolente, per dirla come il sommo poeta, blindata e obliterata di zone rosse. Morituri sono i romani, in una città dove ogni giorno di più si respira un’aria mefitica – non solo per i cassonetti straboccanti – da fine impero. E il neoimperatore Usa venuto a nasare le pertinenze dei suoi sudditi, non ha dovuto mettere sotto al naso neppure un fazzoletto intriso di profumi, come i suoi antichi predecessori, fendendo la muta folla. I cassonetti erano stati rimossi, come gli ubriachi e i postulanti – che a differenza dei primi sono tosto tornati al loro posto – per toglierli alla vista del potente di turno.
Mai un corteo presidenziale somigliava a un corteo funebre come quello che ha traversato la capitale in un silenzio surreale, interrotto solo dai clic dei selfisti e dalla prezzolata ressa dei gazzettieri, tenuti pur’essi ai margini della red zone. Millenaria ignavia, eterno disinteresse, fottuta paura che prima o poi la bomba scoppi pure tra i nostri piedi, con l’eco della strage di Manchester ancora nelle orecchie? Mettiamo pure una punta di reale distacco del popolo da un presidente che pure si vuole populista, via.
Fatto è che nulla meglio dell’infinito e tetro corteo d’auto nere dai vetri oscurati, con gli elicotteri a ronzare sopra, mostrava quanto il potere sia separato e distante da chi ai suoi piedi l’osserva e aspetta che passi, sulle proprie teste. Morti che salutano un cadavere eccellente. Morituri te salutant, Trump.
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