Un sogno di film Scrissi d'arte

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Se c’è uno che incarna il motto chi la dura la vince, è lui. Vent’anni e una quantità inimmaginabile d’intoppi dopo, Terry Gilliam è riuscito a finire una pellicola che divide la critica e può dirsi un capolavoro, se non farà la fine dei suoi flop al botteghino, vedi Il barone di Munchausen o Il mondo capovolto, missing in Italy. Come e più di questi, L’uomo che uccise Don Chisciotte è un film possentemente onirico. Visionario e sconcludente, geniale e surreale come si conviene alla filmografia del regista, ex cartonista dei Monty Python, band angloamericana di dottori a Oxford prestati alle comiche.

Sopravvissuta a nubifragi e fallimenti, nonché alla morte di Jean Rochefort, il protagonista caro a Leconte che avrebbe dovuto personificare il Cavaliere dalla trista figura, il film iniziato a cavallo dello scorso millennio – nel ‘98, giusto vent’anni fa – è infine approdato nelle sale. L’aveva preceduto, nel 2002, Lost in La Mancha, un documentario sulle traversìe che avevano impedito a Gilliam di finire una pellicola che porta una pasticciata ventata di novità nel desolato panorama cinematografico contemporaneo. Non era facile misurarsi con un capolavoro. Una lettura che – caso raro – resiste alla prova del tempo ed è capace d’affabulare ancora un buon numero di lettori, come al suo tempo. Gilliam riesce nell’intento, attualizzando un mostro sacro della letteratura spagnola e d’ogni tempo.

Nella rilettura dell’opera omnia di Cervantes, girata tra i crateri delle Canarie e i luoghi della saga donchisciottesca, la fabula rinascimentale s’arricchisce di un quid di modernità, magnaccia russi e ninfomani, escort e terroristi. In un guazzabuglio di trovate barocche e ridondanti che a volte s’ingarbugliano fino a perdere qualsivoglia filo logico, ma sempre riannodano i fili della storia nel nome della surrealtà che, da tempo, è l’unica forma coèva di realtà.

Don Chisciotte è un povero ciabattino di uno sperduto paesello mancego che solo la magia del cinema ha liberato dalle sue spoglie mortali per imprigionare nella fissità del mito. Toby il regista che l’ha scoperto nella sua opera prima e torna, carico di gloria e povero d’idee, nei luoghi del suo esordio. Finirà per fare da scudiero al vecchio pazzo che ha ritrovato, in un viaggio allucinato e bizzarro, sospeso tra l’oggi e l’allora, un XVI secolo non così distante dal nostro tempo. A immedesimarsi, infine, nell’abbaglio da lui stesso evocato.

In questo viaggio sogno e fantasia si confondono al reale e tutto diventa possibile, la gran macina della vita ingoja dame e cavalieri, buffoni e cortigiani, vita e finzione si mescolano in una groviglio inestricabile. Finché anche ciò che appare certo sfuma e abbaglia come un tramonto nella Mancia, e l’illusione si reifica nel suo contrario. Più di Kubrick, meglio di Fellini, Gilliam resta maestro nel suo genere, nell’arte di sognare e mostrare come la vita si perda, o si ritrovi, alla curva del sogno. L’uomo che uccise Don Chisciotte e fece rivivere il cinema.

Vedi il trailer su https://www.youtube.com/watch?v=Vi7BVX9SpIM


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